Isabelle Adriani, un’artista italiana a New York e Los Angeles

mercoledì 26 settembre 2018


Isabelle Adriani in mostra permanente a New York e a Los Angeles, con l’arte dei suoi collages, dipinti e vetrificati, dedicati alla professoressa Tova Laiter. È la New York film Academy, tanto nella grande mela che in California a volerli esporre, perché la loro capacità di operare una sintesi della storia del grande cinema, trasfigurata dall’arte, è forte e incredibilmente evocativa. Prima ancora che una critica ragionata sulle opere, è sulla personalità dell’artista però che vale le pena di soffermarsi, per una poliedricità tale da renderla non semplicemente rara, ma proprio unica.

Anzitutto Isabelle Adriani (al secolo Federica Federici, figlia di due professori universitari eclettici quanto lei, mentre il nome d’arte è un omaggio alla nonna materna) è laureata in storia e autrice di successo di libri di favole e di storie, tra cui vale la pena di citare il delizioso “La vera storia di Cenerentola” in cui il mitico personaggio viene identificato con una schiava egiziana andata sposa ad un faraone, un libro in cui la materia fantastica viene presentata con un curioso rigore storiografico, per cui alla fine non sai se stai leggendo di storia o leggenda. Delizioso, appunto. Poi Isabelle ha interpretato un gran numero di film, da vera professionista in carriera, anche con grandi registi, come Alan White e Pupi Avati, perché il cinema resta, su tutto, la via maestra della sua vita e in cui ha spaziato in tutti i ruoli, dalle parti brillanti al ruolo di acuta intervistatrice di teorie post-relativistiche. A parte la sua sterminata collezione di libri di favole in bell’ordine nella sua casa di Trastevere, in arte ha curato proprio di tutto incluso un bellissimo catalogo sulle vicende di un palazzo storico del suo eterno fidanzato, il conte Vittorio Palazzi Trivelli.

Tante cose, ma il cinema resta il vero grande amore e da qui nascono le opere di cui parliamo: Charlie Chaplin e la Dolce Vita a Los Angeles e Marlene Dietrich e C’era una volta in America a New York. Cominciamo da Chaplin. In una serie di fotografie disposte a ventaglio, su una base dipinta in giallo. tutta la storia del geniale monello sentimentale del XX secolo viene ripresentata, dal Charlot irresistibilmente incongruo delle comiche, fino agli occhi incredibilmente espressivi di Luci della città, quando guarda la ragazza cieca da lui fatta guarire, che non lo conosce, ma che, proprio da quegli occhi, lo riconosce. Al centro del quadro, Chaplin arrampicato su una grande ruota dentata, legato alla catena di montaggio di una fabbrica fordista, “la macchina che fa dell’uomo una macchina” ci ricorda (e un po’ quasi ci ammonisce) Isabelle. E poi la Dolce Vita, affresco di Fellini sulla condotta dissipata, su di un’allegria inseguita ma non mai afferrata, con uno sfondo amaro che riemerge e in cui la prorompente fisicità di Anita Eckberg , per la sua ingenuità, e la cosa in fondo più pura e che Isabelle fa rivivere in un attimo e tutta assieme.

All’esposizione di New York è l’America che guarda se stessa attraverso gli occhi di un emigrante italiano, l’America dei rombanti anni venti, vista da un non integrato e insieme la storia della sua integrazione che è poi quella di tutto un popolo e infine Marlene Dietrich che cerca di restare tedesca, ma per farlo deve andare in America, storia in fondo di tante migrazioni europee. Nella scelta dei temi Isabelle è molto felice, perché riproduce tutta la storia del grande cinema attraverso gli esempi più significativi e di valore generale (sono storie per tutto il mondo) e lo fa con una tecnica artistica che supera il grande problema delle arti figurative di oggi, quello della comprensibilità e dunque della loro trasmissibilità. Per Benedetto Croce, filosofo dell’idealismo, l’arte è “l’espressione compiuta di un sentimento” dove compiuta vuole anzitutto dire basata su di una logica interna che la renda comprensibile, che le permetta di parlare agli altri, però quando la fotografia tolse alla pittura il suo ruolo storico di conservazione del ricordo e “l’interpretazione” della realtà divenne assolutamente dominante, si arrivò fino all’eccesso estremo di staccarsi completamente dalla realtà stessa e, talvolta, ad un astrattismo non più trasmissibile, ma chiuso in se stesso, sterile.

La “fotografia pittorica” di Isabelle Adriani è un tentativo, riuscitissimo, di superare lo steccato, di riunire arte e realtà, perché ci ridà quei film e la società che descrivevano, in un solo colpo d’occhio, ma anche perché è un grande, gentile e profondo atto d’amore per il Cinema.


di Giuseppe Basini