Se il re è anarchico

L’assolutismo indisciplinato. Sorta di antinomia che si adatta alla perfezione al personaggio istrionico di Paolo Rossi, carico dello spleen di colui che ama confondere il pubblico con la sua proverbiale recitazione paraetilica, semisommersa in uno strano autismo in cui le parole restano per metà serrate nelle mandibole, come avviene quando si dialoga in primis con se stessi. La sua Gestalt lo consacra al teatro contemporaneo come un guitto senza tempo, privo di misura e profondamente erotico nella sua hubris dissacrante. Così, il suo ultimo spettacolo “Il Re Anarchico e i fuorilegge di Versailles”, in scena alla Sala Umberto fino al 28 ottobre, è un esperimento non si sa bene quanto riuscito di porsi a cavallo tra il mastro di bottega e il solipsismo di sempre (il cantastorie con il suo strumento musicale, la voce e il pubblico), che il se stesso auto diretto riesce con grande a fatica a conciliare soltanto cadendo nel delirio e nei vaniloqui di sogni contrastati, popolati dai suoi “fuorilegge” attor giovani che, a forza di improvvisare un teatro senza capo né coda, riescono raramente a far sorridere. Perché questo è il punto: solo la recitazione seria è comica.

Troppa gestualità di accompagnamento (quella che lui descrive come “una corda sospesa sul nulla”), che non crea equilibro ma piuttosto inciampo genera l’ilarità generale solo quando gli stessi attori ne sono sorpresi: una caduta accidentale imprevista e buffa nei suoi movimenti scomposti; un piede maldestro che calpesta uno strascico e lascia intravvedere le forme fin troppo generose di una bella artista. Così, quella che voleva essere un’azione di disturbo generazionale per spodestare Molière dal suo trono di Versailles, si rivela al di sotto dell’obiettivo prefissato dall’attore-regista di dimostrare come l’unico scopo della vita per un attore sia quello di stare sul palco, perché poi tutto il resto è solo “una replica della stessa noiosa comicità”. Quindi, tutto apparentemente semplice, non fosse per l’intreccio di colori di fili illogici (come appunto sono quelli dei sogni tormentati) che mai si fanno trefolo, rifiutandosi pertanto di annodare un discorso o una storia di senso compiuto. Così i personaggi della nonna-moglie, o della paranazista medico che legge in tedesco le analisi cliniche del “patron”, mentre una morte ieratica e vestita di un bianco-sposa si aggira per il palcoscenico in cerca di scrittura, sono tutte statuine di un presepe anarchico senza la Natività.

Altri giovani attori maschili, invece, recitando in varie lingue, operano un’ardua manovra cosmopolita di divertimento, allineandosi con la recitazione improvvisata e non richiesta di una giovane ed energetica attrice che, incompresa e sbeffeggiata, tenta una lettura in francese di brani di Molière. Chiaramente, non c’è nessuna sfida, nessun guanto armato lanciato allo spettatore (come accadeva ai tempi di Carmelo Bene) perché sia lui, quello pagante, a farsi carico anche dell’onere interpretativo. Sembra, piuttosto, una sperimentazione pittorica con colori monocromatici a larghe tese, senza linee perimetrali tracciate in precedenza o visibili, che detiene il solo e unico significato di ricoprire per intero la tela invadendo addirittura la cornice del telaio, in modo da impedire alla mente per ciò stesso di fare suo un qualsiasi significato che non sia il puro piacere di mettere in campo una componente espressiva chiusa su se stessa, inviolabile e incontaminabile e, quindi, perfetta.

Aggiornato il 18 ottobre 2018 alle ore 11:52