Una delle eredità fondamentali delle rivoluzioni borghesi del XIX secolo è stato il principio, mai troppo sottolineato e lodato, dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge di uno stesso stato sovrano. Questa uguaglianza, che riformava gli arbitrii e i particolarismi giuridici dei vari anciens régimes, si fondava sul principio di nazionalità, che sarebbe diventato il garante dei nuovi ordini costituzionali.

Il nostro tempo mette in pericolo il principio di uguaglianza dei diritti dell’uomo. Questa crisi è messa in evidenza dal fenomeno politico più evidente del nostro tempo, la migrazione. Si pone la domanda: qual è lo status giuridico, e prima ancora esistenziale, del migrante, di colui che muove dalla sua terra di appartenenza, funestata da guerre, epidemie e carestie, pur di raggiungere una vita migliore in uno dei ricchi Paesi dell’Occidente (ma ormai il dominio del benessere trascende il solo Occidente). Su questo problema si centra il nuovo, ottimo libro di Donatella Di Cesare, “Stranieri residenti” (Bollati Boringhieri, 2018), una brillante riflessione sulla migrazione.

Questo fenomeno alimenta il dibatto culturale, influenza le tendenze dell’opinione pubblica e le decisioni politiche, mettendo in evidenza il pericolo latente nella politica contemporanea: il rischio di scollamento, la divaricazione tra i diritti del cittadino, sanciti da uno stato nazionale, e la “nuda vita”, se per “nuda vita” intendiamo quella forma di esistenza non garantita da una compagine statuale che ne difende libertà e diritti.

Hannah Arendt, nel suo fondamentale studio sulle origini del totalitarismo, aveva posto il problema dell’apolide, l’uomo senza stato, la cui precarietà politica non era ostacolata, anzi, era accresciuta all’interno delle compagini nazionali. L’immigrato che oggi arriva in un nuovo continente, chiedendo di far parte di una co-munità già integrata e verso cui non è ancora stato “immunizzato”, per dirla con Roberto Esposito, si trova esposto a una precarietà non solo economica – le risorse individuali sono quelle che sono, l’angoscia di fronte al futuro incerto preme, il rimpianto per la vita passata può gravare come un macigno pieno di malinconia), ma anche politica, in quanto il migrante non fa parte del corpus sovrano democratico dello stato nazionale in cui cerca di entrare.

Il libro di Donatella di Cesare, che riporta le più importanti teorie filosofiche sul problema della migrazione, come quelle di Michael Walser e di Habermas, ha il merito di indurre una riflessione, facendoci ricordare come tutti noi che osserviamo in maniera spesso fredda e inerte questa “schiuma della terra” che sembra invadere il nostro continente, siamo in fondo degli “stranieri residenti”.

A questo proposito di Cesare analizza tre paradigmi storici che interpretano in maniera efficace il problema della migrazione (e quello speculare della cittadinanza). Un percorso ermeneutico che parte da Atene, passa per Roma e arriva fino a Gerusalemme. La città di Pericle era la città del ghenos, del noi a cui si appartiene – oppure non si appartiene – del nomos fondato sulla terra e che divideva il mondo tra greci e barbari, tra autoctoni e estranei.

La Roma del diritto universale, invece, era la città dell’integrazione, dell’assimilazione di ciò che non è ancora romano, pur garantendo, al termine di un inevitabile processo storico-dialettico, il riconoscimento delle particolarità inserite nella totalità. Gerusalemme era infine la città dove l’abitante e lo straniero ruotano attorno a un circolo. L’abitante è uno straniero e lo straniero è un l’abitante.

Scriveva Eraclito che un uomo non si può bagnare due volte nello stesso fiume. Per il filosofo di Efeso il mondo è retto dalla legge del divenire: nulla è uguale mai a se stesso. La trasformazione incessante, latente dell’esistenza, ci fa ricordare che in fondo la vita non è mai data una volta per tutte, e allora l’esistenza può essere simbolizzata da un fiume impetuoso che scorre e che nel suo lavoro incessante di scavo ci mette di fronte al destino comune: la progettazione, e la costruzione efficace della vita umana, minimo comune denominatore sul quale poter fondare quel rispetto reciproco che si può riconoscere a ogni essere umano in quanto essere umano.

 

 

Aggiornato il 23 ottobre 2018 alle ore 17:35