Barry Lyndon al Teatro di Roma

Chi è il nostro peggior nemico? “Noi stessi”. Conclusione invitabile stando alla lettera del romanzo “Barry Lyndon” di William Makepeace, tradotto in sintesi nello spettacolo omonimo messo in scena dal regista Giancarlo Sepe al Teatro Argentina, in cartellone fino al 4 novembre. Scommessa dalle cento pistole (e non solo metaforicamente, visti gli innumerevoli duelli che costellano la narrazione originale) questa della traduzione teatrale delle memorie di uno dei più celebri avventurieri della seconda metà del Settecento, in cui gli amplessi storici degli Stati-Nazione emergenti e dei loro sogni imperiali si svolgono su più continenti, sempre avvolti dalle nebbie dei cannoni, della polvere da sparo e da eserciti di povera gente reclutata con la forza o per una paga di fame. Si muore come mosche sui campi di battaglia, come negli slum fatiscenti di Londra, Dublino, Parigi e Vienna autentiche sabbie mobili di un’umanità devastata, perennemente ai margini, travolta suo malgrado da un progresso e dal nuovo dio della Technè. Entità mostruosa quest’ultima che quel popolino lacero e misero non riesce né a comprendere né a controllare, ma alla quale si sacrifica innocente donando alle sue macchine da guerra e alla nascente industrializzazione un mare di figli da sfruttare cinicamente per il bene della nuova (dis)umanità.

Barry è una figura di confine, tra le tragedie imminenti e attuali sopra descritte. Lui, è l’uomo dell’avventura per l’avventura, che passa da disertore e soldato in vari campi che si contendono il potere in Europa ai tempi di allora. Irlandese, inglese, prussiano. Più e più volte il suo destino si incrocia con la bandiera dell’Union Jack e con i suoi capitani, rivali, amici, nemici, o ex soldati caduti in disgrazia ai quali tendere una mano pietosa da civili diseredati. Ma non c’è eroismo in tutto ciò, e tantomeno erotismo in quanto Barry, nato spiantato ma con radici nobili sempre rivendicate, non ha che un obiettivo: sposare una ricca nobildonna e ricostruire i fasti della sua casata usando il patrimonio di lei. Così le donne nella vita di Barry sono tutte transeunti, come le bandiere, il gioco d’azzardo, le mille astuzie che servono per sottrarsi alla coscrizione forzata, a ricattare soggetti più deboli e inesperti, costruendo attorno a loro mille trappole, tutte attentamente studiate e programmate, come se le persone fossero pezzi inanimati di un gioco di scacchi dove le Regine e non i Re sono il vero obiettivo della contesa. Ma i figli legittimi muoiono per disgrazia, mentre quelli adottivi crescono nell’odio immortale per un patrigno fin troppo dissoluto, violento e fallito.

Unica Stella Polare nella vita tumultuosa e disordinata di Barry è la figura materna, solidale con quel suo figlio semidannato, malgrado tutte le prove della sua immaturità e nefandezza. Sepe ha il grande pregio di aver azzardato l’impossibile, nel suo tentativo di ridurre un dodecaedro a un prisma scenico di sole tre facce, più una quarta temporale e invisibile. La sua scelta allora è stata allo stesso tempo semplice e ardita: riprodurre il Vortice, quel movimento inarrestabile e spiraleggiante che trascina Barry dal successo alle profondità del degrado e dell’abiezione. Così, tra molta parte della recitazione in inglese, attori e personaggi sono miscelati all’interno di scenografie sempre in movimento, dove le vestizioni e i travestimenti coincidono con i cambi di luogo, di atmosfere, di Paesi e culture. Nulla si muove, in fondo, sul piano razionale dato che la narrazione prescelta è un disegno astratto che impone allo spettatore un faticoso percorso, invitandolo a tracciare linee continue che congiungano punti assai discontinui e radi, per cui è molto facile confondersi tra tutti i tracciati possibili. Ma questa è, decisamente, la forza della rappresentazione prescelta: “Caro Osservatore fai tu. Purché non bari, ogni tua soluzione compatibile è ammessa”.

Aggiornato il 25 ottobre 2018 alle ore 13:48