Il capolavoro di Hugo al Teatro Quirino

“È vero che Dio gioca a dadi!”. Così avrebbe risposto a Einstein Victor Hugo, contestando quella sua famosa invettiva antiprobabilistica attraverso il racconto di storie di povera gente, narrate nel suo capolavoro “I Miserabili”. Opera che dà il titolo alla riduzione teatrale omonima in scena fino al 4 novembre al Teatro Quirino di Roma, per la regia di Franco Però, con protagonista Franco Branciaroli nella parte dell’ex forzato Jean Valjean. La vita in quel lontano inizio del secondo decennio dell’Ottocento, con Napoleone in esilio e la Restaurazione imperante, così come ce la racconta Hugo, è un po’ come il cubo di Rubik: sono sufficienti pochi avvitamenti perché i colori si mescolino inestricabilmente tra di loro; e lo stesso accade a quel benedetto Dado del Destino che non alterna più le facce nette del Bene e del Male, Nero e Bianco. In lui, in quel suo rotolare misterioso tutto si gioca nello Yin e nello Yang in cui nell’uno c’è sempre una compresenza dell’altro. Sulla scena, imponenti lastre verticali scorrono tra di loro per dare pareti provvisorie e precarie ai vari quadri, rigorosamente di colore plumbeo, di un grigio sporco come la vita nei bassifondi, con le sue abitazioni malsane, le malattie, i delitti, lo sfruttamento minorile, la fame sempiterna.

Eppure, nel buio fitto c’è sempre la luce di una lanterna proprio come nello schema Yin/Yang. Così, uno scugnizzo figlio di malfattori e di genitori scellerati può donare la sua gioventù e immolarsi da eroe sulle barricate della rivolta antimonarchica del giugno 1832. E in quelle stesse atmosfere roventi di fuoco, di gioventù e di follia rivoluzionaria, anche la sorella giovane prostituta sacrifica se stessa per proteggere un amore non corrisposto al quale sa addirittura regalare il sorriso di un’altra, Cosette, la figlioccia del galeotto innamorata dell’eroe ideale, Marius, un giovane intellettuale nato ricco che sceglie la povertà in onore delle sue idee liberali, che incontreranno la rivoluzione e la quasi morte, per essere poi salvato da chi più l’aveva odiato: il patrigno di Cosette, Jean Valjean. La pièce rende in modo assai fedele lo spirito del testo originale, che sgretola le certezze granitiche di chi, come l’ispettore di polizia Javert, volendo applicare la legge umana si trova improvvisamente confrontato a quella divina, che dona la grazia proprio a colui che si voleva rappresentasse il male assoluto, pur essendo stato condannato al carcere duro e ai lavori forzati solo per aver rubato un’oncia di pane, per darlo ad altre sue creature in miseria.

E la rivoluzione interiore di Valjean, quella che gli impedirà di far condannare un altro al posto suo, è scandita da due candelabri d’argento massiccio che un vescovo ritenuto santo gli ha donato, acquistando così la sua anima al Bene. Ma l’Amore maiuscolo è quello che sa ritrarsi dalla prima linea per timore del proprio passato, perché la Redenzione è un fatto sempre dubbio per chi la vede dall’esterno. Valjean conosce la vita, sa che cosa significhi stare in catene, subire bastonature irragionevoli dettate da un volontà di dominio fine a se stessa, da parte di uomini del popolo che una divisa ha reso irriconoscibili. Allora, malgrado le ricchezze accumulate sotto la falsa identità di Monsieur Madeleine che da ricco imprenditore, grazie alle sue eccezionali doti morali, era riuscito a divenire sindaco di Montreuil-sur-Mer, Valjean continua a vivere come un galeotto nella sua stanza priva di stufa, consumando pane nero ai pasti, pur di condividere idealmente la sofferenza dei forzati, molti dei quali sono migliori di quelli “di fuori”, perché la miseria rende laidi anche i buoni regalando loro raramente una seconda occasione di riscatto.

Aggiornato il 26 ottobre 2018 alle ore 16:06