“La scortecata” di Emma Dante all’India

La vecchiaia? Un Giano bifronte. Perché, infatti, c’è chi anche in tardissima età non esita a occuparsi degli altri con mille attenzioni quotidiane e chi, invece, pur a un passo dai cento anni, rimane infantile e rifiuta con tutte le sue forze le irreversibili ingiurie del tempo.

Un prototipo favolistico di quanto sopra è il racconto della “Scortecata” che Emma Dante, nella sua personalissima riduzione teatrale, mette in scena al Teatro India di Roma fino all’11 di novembre. Lì, sul palco sostanzialmente vuoto come la vita di chi non ha più nulla da dire al mondo e a se stesso, in attesa rassegnata della Nera Signora, le due anziane signorine sono impersonate da robusti attori maschi, abili e navigati nel loro dialetto siciliano stretto, che si muovono imitando le articolazioni sgranate dall’artrosi dei grandi vecchi in cui ogni minimo movimento è una sfida alla gravità e al già scarso indice di sopravvivenza. E poiché i dati ossessivi del comportamento dei molto maturi sono marcatori della quasi demenza e della perdita progressiva di memoria, allora l’apertura della rappresentazione è scontata: due uomini-scimmia, ormai non più né alfa né beta ma solo desolatamente “analfabeta”, sono sorpresi come i cuccioli a mettersi il dito indice in bocca sfregandolo vigorosamente sul palato, nel tentativo di far sparire le grinze della pelle.

Nella favola omonima, infatti, un curioso principe, scemo come le due anziane ma sempre il capo supremo di quello sperduto borgo, innamoratosi della voce di una delle vecchissime signorine vorrebbe perlomeno avventurarsi con la cantatrice in una notte di piacere ma, per tutta risposta, deve accontentarsi della visione di un solo dito come anticipo (davvero un po’ esagerato al ribasso) per quanto riguarda i futuri piaceri carnali. Anche la musica melò è sincrona al carico degli anni rilanciando la nostalgia della gioventù, per quelle due sorelle zitelle che trascorrono tutto il tempo a rinfacciarsi occasioni perdute per abbandonare alle ortiche una così disdicevole verginità. Tutto è cadente nella loro vita, meno che i sussulti della fantasia e il gusto dell’orrido potendo concepire persino un piano così folle da mettere una delle due nel letto del principe per farsi, finalmente, deflorare dopo una vita d’inutili attese. Qui il gusto della commedia grandguignolesca della Dante prende prepotentemente il sopravvento, grazie alla recitazione roca e poderosa nei tratti ironici e nei sentimenti disperati dei due attori-mattatori, i bravissimi Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola.

Fabula e affabulazione si mescolano come le spezie e gli artigli di drago nel calderone del sabba delle streghe, dove inevitabilmente vengono richiamate anche fate sprovvedute tirate per l’incerta bacchetta a fare il miracolo della Fonte della Gioventù. Poiché il segno e il simbolo sono la forza della storia e della mente umane, ecco che il mitico castello del principe è solo una miniatura da Barbie, mentre le calze sdrucite color carne in origine, tirate su fino alle ginocchia, sono lasciate in desolante mostra dalle rispettive vestarelle sbrindellate color bianco sporco e tarlato, che possiedono solo un vago ricordo dei pizzi e delle merlettature di una sarta estinta. Per dire: “più laida di così!”.

Eppure, anche a cent’anni l’amore ha sempre il profumo di rosa, malgrado l’alito da fiele, perché le bocche da baciare hanno la consistenza delle nuvole e la credibilità dei sogni. Ma, nonostante che la grande falce oscilli sempre più pericolosamente sulle loro teste ogni giorno che passa, le due sorelle centenarie nei loro sentimenti purissimi sono come un luminoso cielo granulare disseminato di astri. E di follia: tanto che la più giovane (si fa per dire..), assecondata dall’altra, concepisce l’atroce morte per scorticatura pur di riavere la pelle di pesco dell’infanzia perduta.

Aggiornato il 01 novembre 2018 alle ore 13:47