Jacques d’Adelswärd-Fersen, l’ultimo dandy

lunedì 5 novembre 2018


La sera del 5 novembre 1923 moriva a Capri per overdose Jacques d’Adelswärd-Fersen, l’ultimo dandy ad aver trasformato la sua vita in un’opera d’arte. Mentre la situazione economica di inizio Novecento spinse gli italiani a tentare l’avventura della migrazione, artisti e intellettuali stranieri videro già da tempo alcune delle regioni italiane come luoghi mitici, del riconforto. Il Meridione si rivelò infatti come il centro di un vasto ‘réseau’ europeo ; colonie di cittadini olandesi, francesi, inglesi e tedeschi popolarono molte zone del sud Italia, avviandovi diverse attività. Già nel 1876 si era stabilito a Capri Camille du Locle, ex direttore dell’Opéra Comique di Parigi e collaboratore di Giuseppe Verdi, in quella che lui aveva definito come la “seconda patria di tutti gli artisti”.

Da Napoli passarono anche Norman Douglas, Wilhelm von Plüschow che scelse poi la capitale per aprire il suo atelier, Wilhelm von Gloeden che preferì la campagna di Taormina, e dove sarebbe morto nel 1931.

Nato a Parigi nel 1880, Jacques d’Adelswärd-Fersen si trasferì a Capri tra il 1904 e il 1906 e vi passò il resto dei suoi giorni. La sera del 5 novembre 1923, cinque grammi di cocaina misero fine ad una vita di eccessi e di scandali. Autore sconosciuto Oltralpe, se si escludono i contributi di Rachilde e qualche altro, in Italia invece parlarono di lui i giornalisti, autrici come Matilde Serao, Ada Negri, Grazia Deledda, poi Filippo Tommaso Marinetti in un testo assai provocatorio. Se ne occupò perfino la politica nella seduta del senato del 26 ottobre 1946. Giustamente, parlarono di lui e poco o quasi nulla della sua opera. Alla fine degli anni Cinquanta il suo nome cadde ingiustamente nell’oblio. In Francia dove aveva pubblicato una decina di testi e diretto la rivista Akademos venne etichettato fin da subito come autore secondario, di poco interesse e dalle condotte morali deplorevoli. I suoi libri risultarono ben presto introvabili. Inoltre le due prefazioni scritte da Coppé e Rostand sarebbero state rimaneggiate poiché semplici lettere di congratulazioni. Sul finire degli anni Cinquanta fu poi Roger Peyrefitte a renderlo protagonista del libro L’esule di Capri.

Se per gli scambi culturali, i rapporti personali, i contatti con gli intellettuali, lascia il suo nome legato all’Italia e alla Francia, è proprio a Capri che il suo mito si struttura. Testimone di una società che non esiste più, lo è al tempo stesso per quelle piccole comunità che si sono costituite quasi furtivamente, credendo di trovare in quei luoghi l’affermazione di un ego smisurato. Jacques d’Adelswärd ha condotto lungo il sentiero che porta a Villa Lysis, non solo altri esuli europei ma anche alcuni uomini e alcune donne che del secolo scorso sono stati i protagonisti. Se ne stava circondato da personaggi originali, e malinconici in fuga dall’ordine dei rispettivi mondi, come le Wolcott-Perry, Ephy Lovatelli Caetani, Mimi Franchetti, Romaine Brooks, Luisa Casati, Gilbert Clavel, Renata Borgatti, e gli altri intellettuali, come Italo Tavolato, Compton Mackenzie, Ottorino Respighi, Roberto Bracco.

Nonostante la quasi totalità della sua produzione sia stata scritta in francese, è la cultura italiana che contribuisce al recupero e al mantenimento del mito. Vanna Vinci ne ha fatto uno dei protagonisti del fumetto dedicato a Luisa Casati; quanto all’arte Fersen è stato uno dei protagonisti dell’esposizione del duo Vedovamazzei al museo Madre di Napoli. Solo questo basterebbe per fare di lui un autore da riscoprire, un personaggio chiave per la comprensione di un periodo storico che finì con l’avvento del fascismo.


di Gianpaolo Furgiuele