L’eredità di De André vent’anni dopo

venerdì 11 gennaio 2019


Fabrizio De André vent’anni dopo. L’eredità del grande cantautore genovese è ancora di straordinaria attualità. Nel ventennale della scomparsa si tengono numerose manifestazioni che celebrano il musicista. A Genova, lo ricordano la moglie Dori Ghezzi e il figlio Cristiano. Con un’intera giornata. Partecipano Gino Paoli, Neri Marcorè, Antonio Ricci, Fabio Fazio, Morgan e Luca Bizzarri. In primavera, la Pfm dedica al cantautore una tournée italiana: “Pfm canta De André – Anniversary”. In quasi quarant’anni di attività artistica, De André incide quattordici album in studio. Nei primi anni Settanta, con “Non al denaro non all’amore né al cielo” e “Storia di un impiegato”, emerge il De André politico che narra il ‘68 e il maggio francese. Tra i punti di riferimento di De Andrè figurano, senz’altro, gli chansonnier francesi. Su tutti, George Brassens. Ma Faber non disdegna il Folk rock americano. Grazie a Francesco De Gregori, con “Volume 8” e Massimo Bubola, con “Rimini”. L’ultimo dei cantautori con cui collabora De Andrè è Ivano Fossati, per “Anime salve”.

Nel 1979 De Andrè incontra artisticamente la Pfm. Gli arrangiamenti del noto gruppo di rock progressivo sposano le musiche e le parole del cantautore. Ne nasce un sodalizio di assoluto valore artistico. Da quel confronto, l’attenzione di De André per le nuove sonorità sarà irrimediabilmente cambiata. Seguono “L’indiano”, figlio dell’esperienza del rapimento in Sardegna e poi è tempo di “Crêuza de mä”, il capolavoro in chiave di world music, alla cui base figura l’eccezionale contributo di Mauro Pagani. È un album in cui la tradizione genovese si apre alle musicalità mediterranee.

Attraverso il suo sguardo libertario, De Andrè ha raccontato la complessità, le sconfitte e le miserie dell’uomo contemporaneo. Dalle ballate ai racconti in musica tratti dai vangeli apocrifi fino alle poesie della “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters tradotte da Fernanda Pivano. Versi asciutti, evocativi, impietosi, mai retorici. Nonostante la sua formazione borghese, Faber, da iconoclasta disincantato, ha rappresentato in maniera autentica il mondo degli ultimi.


di Guglielmo Eckert