L’Era dell’Uroboro? La nostra, a quanto pare. Quella, cioè, del tempo ciclico infinito in cui si fondono passato e presente. Non più il tempo lineare, quindi, relitto di un’antropologia ormai scomparsa in cui l’Uomo affidava agli Dei pagani futuro e destino. Del resto, il simbolo dell’Uroboro, il serpente che si mangia la coda, non era già raffigurato nella tomba di Tutankhamon? Il costituzionalista Michele Ainis dedica il suo breve saggio “Il Regno dell’Uroboro” (Edizioni La Nave di Teseo), alla condizione solitaria e narcisista dell’uomo moderno inviluppato nell’inestricabile tela di ragno dei suoi gigabyte che ne imprigionano la mente all’interno delle nuove tecnologie digitali, smartphone, tablet e personal computer in particolare. Molti milioni di persone in Italia passano la maggior parte del loro tempo in totale solitudine davanti a uno schermo interattivo, credendo che il divertimento e le App siano gratis mentre invece i vampiri giganti delle Major mediatiche americane (Google, Facebook, Instagram, WhatsApp, Tweeter, etc.) si nutrono dei dati che noi produciamo per profilare gusti, stili di vita, propensione al consumo e scelte elettorali che sono altrettante miniere d’oro sul mercato del merchandising, delle pubblicità commerciali e della politica.

Il Grande Fratello planetario inizia la sua conquista il 4 dicembre 2009, quando Google sceglie di profilare i propri utenti, tenendo conto delle ricerche individuali precedentemente effettuate su Internet. Da lì cambia tutto: l’uomo resta racchiuso nei propri pensieri che divengono riflettenti e autoriflessivi, incapace quindi di relazionarsi con la realtà esterna che non sia racchiusa in quel suo dilatato, innaturale e praticamente infinito spazio digitale: un vero e proprio guscio autistico virtuale. Il paradosso dei paradossi dell’era moderna è infatti proprio questo: disporre del massimo di informazione senza avere una bussola analitica e selettiva per orientarsi in un oceano illimitato di notizie (“fake” e veritiere) planetarie. Tutto lo scibile è a portata di tastiera ma non ha nulla a che fare con lo sviluppo dell’intelligenza e, soprattutto, con l’aumento auspicabile della capacità critica e della ricchezza di pensiero, che solo la dialettica e il confronto aperto con le vite reali degli Altri da Te possono dare. E questo, dice Ainis, costituisce un irreparabile vulnus alle condizioni di agibilità delle democrazie che si reggono sulla diversità e non sulla omologazione.

Il Regno dell’Uroboro è l’annientamento della capacità di pensiero mascherata dalla totale libertà di scelta rispetto all’informazione globale disponibile. Ainis formula alcune tesi interessanti nel suo pamphlet. Tra le altre: le tecnoscienze ci prendono (in volume di conoscenza delle nostre vite che crediamo siano private!) molto più di quello che sembrano restituirci. Tutto questo perché noi non conosciamo nulla di quelle loro capacità predatorie, nascoste dietro algoritmi segreti che lavorano su immensi database (procedimento che combina il “data mining”, sfruttamento dei dati come si farebbe con le vene aurifere; l’analisi dei dati stessi e il “targeting” per influenzare i comportamenti dei consumatori e degli elettori) custoditi nelle memorie remote di supercomputer e nei cloud. In secondo luogo, restare perennemente connessi (ai gruppi social, come quelli di WhatsApp e Facebook, o alle innumerevoli chat per scambiarsi in sostanza informazioni quasi sempre vuote) ci rende molto più deboli e vulnerabili di quando avevamo solo il telefono a gettone per comunicare fra di noi. Per non parlare poi delle alterazioni neurologiche vere e proprie per cui si abitua la mente a ricercare risposte rapide e soluzioni semplici, nel tentativo sempre più riuscito di azzerare le complessità della dialettica e dell’interpretazione del mondo che ci circonda.

La totale autoreferenzialità autarchica del pensiero individuale è supportata dalle capacità di indirizzamento dei potenti algoritmi utilizzati dalle Major mediatiche, che pestano le informazioni disponibili nel mortaio individuale delle nostre convinzioni radicate, da noi scambiate ossessivamente all’interno dei gruppi chiusi di appartenenza nei social ai quali siamo iscritti. Major che divorano tutti i dati (localizzazioni, cronologie di ricerca, messaggi scritti e verbali, immagini soprattutto) che produciamo ogni giorno per molti miliardi di item.

Da persone singole si diventa così semplicemente “folla” e tutto questo rende fragili le democrazie a causa della disintermediazione: milioni di utenti twittano direttamente con i loro leader e questi ultimi arringano con frasi brevi e a effetto il proprio “popolo” sempre connesso, togliendo così ai corpi intermedi le prerogative della necessaria mediazione tra cittadini e potere. E se le macchine scavalcassero un giorno l’uomo grazie alle loro sempre più prodigiose capacità di autoapprendimento?

Aggiornato il 06 maggio 2019 alle ore 13:19