“Il traditore”: la tragedia di un tormentato “uomo d’onore”

Nonostante l’accoglienza trionfale di pubblico e critica, Il traditore di Marco Bellocchio a Cannes non ha ricevuto premi. Eppure, si tratta di uno dei titoli più importanti dell’anno. Un film che s’inserisce, di diritto, nella lunga e gloriosa tradizione del cinema civile italiano, ma che, inevitabilmente, si confronta con il cosiddetto “mafia movie”. L’ultimo lungometraggio di uno dei maestri del nostro cinema racconta la storia del pentito per antonomasia, Tommaso Buscetta, interpretato sul grande schermo da un mimetico Pierfrancesco Favino, che offre una prova superba, sul solco del grande Gian Maria Volontè.

Il copione, firmato dal regista con gli sceneggiatori Ludovica Rampoldi, Valia Santella e Francesco Piccolo e con il giornalista Francesco La Licata, racconta le vicende umane e mafiose di Don Masino, “boss dei due mondi”, attraverso gli interrogatori resi al giudice Giovanni Falcone. Durante questi confronti e nel corso delle dichiarazioni pronunciate al Maxiprocesso di Palermo, il collaboratore di giustizia non si definisce mai “pentito”, bensì “uomo d’onore”. Ma il titolo del film mutua la percezione dell’universo mafioso. Tant’è vero che Buscetta è rinnegato persino dalla sorella.

Oltre all’attore romano, nell’ottimo cast figurano: la splendida attrice brasiliana Maria Fernanda Cândido, che interpreta la dolente e sensuale compagna di Buscetta; un convincente Fabrizio Ferracane, che dà il volto ad un sardonico Pippo Calò; Fausto Russo Alesi, che offre una versione introversa di Giovanni Falcone; Nicola Calì che si cala in maniera impressionante nei panni di Totò Riina; un eccezionale Luigi Lo Cascio, che parlando in palermitano stretto, recita il personaggio di un incontenibile Totuccio Contorno.

La colonna sonora incalzante del film, firmata dal premio Oscar Nicola Piovani, segue e contrappunta i momenti cruciali del racconto cinematografico. Il lungometraggio, chiosato da giustificate didascalie informative, inizia con una festosa scena d’insieme ambientata nella spiaggia palermitana di Mondello, nei primi anni Ottanta. La lunga sequenza, che funge da prologo e contiene i prodromi delle tragedie future, riecheggia chiaramente Il gattopardo viscontiano e il primo Padrino di Coppola. La foto scattata nella serata ritrae gli amici-nemici di Cosa nostra. Dal rampante Stefano Bontate (Goffredo Maria Bruno) che finirà presto i suoi giorni sotto i colpi dei Corleonesi di Totò Riina a Buscetta, che soccorre il figlio divorato dall’eroina. Subito dopo ecco gli ammazzamenti scanditi da un contatore impazzito.

Al riparo dalla guerra di mafia, Buscetta, che pur considerandosi un “soldato” fa parte della vecchia organizzazione, quella che “non ammazza i bambini”, ha trovato una nuova vita in Brasile. Da lontano, assiste impotente, all’uccisione di due suoi figli e del fratello. È lì che la polizia federale lo arresta e, dopo ripetute e barbare torture, lo riconsegna allo Stato italiano. A Roma lo attende Falcone. Il giudice, grazie al contributo di Buscetta, riesce, finalmente, a descrivere l’organigramma mafioso. I suoi nemici giurati sono Pippo Calò e Totò Riina. Entrambi responsabili della morte dei familiari del pentito.

Il cuore del film è il “rispettoso” rapporto tra Buscetta e Falcone. Un rapporto in cui si confrontano l’etica della giustizia contro il codice mafioso. La fascinazione melodrammatica rappresentata dal personaggio di Buscetta ha senza dubbio colpito Bellocchio. Anche se qua e là si ravvisano eccessi bozzettistici alternati a spezzoni di repertorio. Ma il confronto con la realtà è impietoso. La verità irrompe unicamente attraverso quei frammenti. In particolare, la disperata commozione raggiunge lo spettatore quando appare sullo schermo Maria Rosaria Schifani, vedova di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta morti insieme a Falcone. La donna, ai funerali, pronuncia le parole che rappresentano lo stigma di condanna della mafia: “Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio”.

Come in Buongiorno, notte, anche con Il traditore, Bellocchio si misura in maniera eccellente, ma meno ispirata, con il racconto storico. Il regista mette in scena l’epopea tragica di un uomo tormentato dai sensi di colpa. Una narrazione attraversata da fantasmi e presagi funesti. I personaggi principali della storia costituiscono la personificazione del doppio tono che popola il film: ora tragico ora ironico. Il registro drammatico è rappresentato da Buscetta, quello satirico da Contorno.  

Le parole di Buscetta certificano la fine di Cosa nostra. Che, per la verità, il collaboratore di giustizia imputa, in un drammatico confronto, a Totò Riina. Già, i confronti. Quello con il capo dei capi, in effetti, è un sofferto soliloquio. Il dialogo con Pippo Calò, invece, è ricco di sfumature. Un vero e proprio saggio di “teatro psicologico” carico di colori, ora dolorosi ora grotteschi.

Il regista, raccontando la vita del più noto pentito di mafia, ripercorre il proprio percorso d’autore. Per queste ragioni, orchestra scene oniriche e metafisiche alternate ad un iperrealismo di straziante efficacia. Il Buscetta di Bellocchio è un personaggio complesso. È un padre che denuncia il male perché è in debito con i propri figli trucidati. Ma non è un uomo redento. Il cineasta, prendendo le debite distanze, lo descrive come un uomo fallace che si è macchiato di delitti atroci. Un malavitoso che crede ancora nella vecchia Cosa nostra eppure assiste alla sua formale conclusione. Per queste ragioni, la sequenza delle condanne pronunciate alla fine del Maxiprocesso, ironicamente sottolineata dal Va’ pensiero verdiano, rappresenta l’illusorio finale dei misfatti mafiosi.

Aggiornato il 30 maggio 2019 alle ore 12:19