Mario Soldati, la gioia di vivere

martedì 11 giugno 2019


Vent’anni fa, in questi giorni (il 19 di giugno, per l’esattezza), ci lasciava Mario Soldati. Personaggio straordinario, forse non è esagerato considerarlo unico, della nostra letteratura contemporanea. Gran giornalista, di quelli che sanno come ammaliare il lettore. Grande scrittore, capace di “dilettare” nel senso autentico chi acquista un suo libro. Grande regista (un festival come quello che si svolge a Torino farebbe cosa buona e giusta, ma soprattutto bella, se gli dedicasse una retrospettiva). E poi… Poi l’abbiamo visto in televisione: autore di dotti e al tempo stesso “lievi” documentari e inchieste. Si è immerso nell’impegno civile, mai fazioso, al di sopra della politica politicante, ma partecipe, appassionato, sia pure con sguardo ironico, divertito e disincantato.

Il 25 luglio del 1943, quando cade il regime fascista, l’articolo di fondo sul Messaggero “Per la patria” (“Occorre far fronte, con profonda consapevolezza ad una situazione di cui tutti comprendono le minacce, i pericoli, le difficoltà immani…”), lo scrivono Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti; ma mentre i due lo battono a macchina, attorno ci sono con spunti e suggerimenti, Leo Longanesi, Ennio Flaiano, e, appunto, Soldati: i sodali e gli amici di sempre, insomma).

Nato a Torino il 17 novembre 1906, Soldati quella città l’ha nel sangue. A Torino cresce, studia, si forma: l’Istituto sociale dei gesuiti, ha per lui un’importanza fondamentale. Per qualche tempo accarezza anche l’idea di entrare nell’ordine, per poi giungere a una sorta di personalissima fede che riesce a conciliare, con la visione razionalistica. Tutto questo chiaramente si riflette e traspare nella sua produzione letteraria. Sempre a Torino, le grandi amicizie: Piero Gobetti, Felice Casorati, Riccardo Gualino, Mario Bonfantini, Giacomo Debenedetti, Carlo Levi, Giacomo Noventa, Agostino Richelmy. Poi, in anni più maturi, la felicità di essere tra i fondatori del Centro intitolato a Mario Pannunzio, presidente per un ventennio.

Per queste ragioni, fugacemente trattate (ma tante altre se ne possono citare), Soldati merita un posto particolare nella nostra ‘memoria”, nella storia della nostra cultura e, in modo assai più incisivo, lo dovrebbero e potrebbero ricordare Torino e la regione Piemonte. È triste, per esempio, prendere atto che il recente Salone del libro, assurto alle cronache per polemichette di ben poco spessore come la presenza o meno di una minuscola casa editrice della destra estrema, poco o nulla abbia dedicato a Soldati; e il pochissimo lo si deve a Pier Franco Quaglieni, infaticabile direttore del Centro Pannunzio, e di Soldati amico e grande estimatore. E sì che Soldati a Torino (cito Quaglieni) “vede la nobiltà della tradizione, il senso del rispetto, ed un’antica civiltà dei modi”.

Proprio a Quaglieni si deve un libro che merita: Mario Soldati, la gioia di vivere (Golem edizioni, 316 pagine, 20 euro). Libro “leggero” e al tempo stesso denso, costituito da preziosi saggi e testimonianze: di e su Soldati ragionano e scrivono oltre lo stesso Quaglieni, pesco qua e là: Giorgio Barberi Squarotti, Mario Baudino, Guido Davico Bonino, Lorenzo Mondo, Bruno Quaranta, Mara Pegnaieff, Arrigo Petacco, Raffaello Uboldi. Mi scuso per i non citati, ma sono davvero tanti, gli autori. Conviene interrogarsi come, anche per Soldati, si consumi una sorta di schizofrenia: molto amato dalle persone comuni, e ricordate le sue animate apparizioni gastro-televisive, i suoi I racconti del maresciallo, le sue sapide cronache sportive, la passione per i sigari toscani, e il gusto (la gioia, appunto) del buon cibo. Per contro, una certa schifiltosità della critica laureata: quella dei dotti di molta nozione e poco sapere.

Annota Quaglieni, nell’introduzione: “Forse non è piaciuto a certa critica proprio perché sfuggiva agli schematismi semplicistici, alle sintesi generiche e confuse. È stato un anticonformista per natura e per scelta. Uno degli aspetti che da sempre mi colpì in lui era il gusto appassionato per tutta la vita e la volontà, spesso turbata da dubbi e contrasti morali, di godersela avidamente in tutte le sue espressioni”.

E ancora: “Soldati è stato come un destriero che non ha mai sopportato né morso, né briglie. Egli è stato ed ha voluto sempre rimanere un uomo libero, senza condizionamenti di sorta. Come Pannunzio, amante delle comodità di ogni giorno e a volte anche de lusso, Soldati ci ha insegnato la scomodità della dissidenza rispetto a ogni forma di conformismo. Da un lato era l’uomo che amava lo scopone, il vino buono, il sigaro, il gioco delle bocce, ma nell’intimo era un intellettuale di gusti letterari raffinatissimi, che citava abitualmente nelle sue conversazioni i suoi poeti preferiti che entravano così, senza forzature, nel suo quotidiano con assoluta spontaneità. Vita e letteratura in lui finivano per identificarsi. È stato un po’ Pascal, un po’ Montaigne. Un socialista umanitario e liberale che ha sempre rifiutato il marxismo. Per lui valevano i sentimenti umani, non le ideologie. Sentiva profondamente la forza della passione rivissuta attraverso l’amatissimo Alfieri”.

Insomma, un Marco Pannella della letteratura e dell’arte. Volete, dunque, che un tipo con gusti così radicali non sia popolare, e al tempo stesso guardato con sospetto e diffidenza? Di che pasta è Soldati lo comprende bene Leonardo Sciascia. In una raccolta di interventi sparsi (Fine del carabiniere a cavallo. Saggi letterari 1955-1989, Adelphi), “dipinge” una galleria di “irregolari”, refrattari a congreghe e combriccole “corrette”: da Alberto Savinio a Vitaliano Brancati, da Leo Longanesi a Giuseppe Antonio Borgese; e, per l’appunto, Soldati. Per Sciascia Soldati rappresenta qualcosa che “è sulla soglia della felicità. Questo è, esattamente definito, il mio sentimento di lettore, da quando, per la prima volta sul Mondo di Pannunzio, lessi un suo racconto”.

La felicità: qui si torna al libro di Quaglieni: “La gioia di vivere”. Sciascia comprende che Soldati “vive” con i suoi autori quello che a lui stesso accade: “il vivere è per lui un raccontarsi, un raccontare, un rendere all’essenza del racconto, ogni situazione, anche la più banale e quotidiana”.

È questo che rende Soldati e Sciascia, autori pur così diversi, affini, con un “comune sentire”. Dalle pagine de libro curato da Quaglieni ben lo si coglie e comprende: e preziosa, in particolare, è la parte terza, costituita da interviste, “ricordi”, “frammenti” e inediti raccolti con certosina cura e la passione che deriva da ammirazione, ma soprattutto da grande, inossidabile amicizia.


di Valter Vecellio