Vox, la destra liberale, la Spagna, l’Europa. Parla Francisco José Contreras

Francisco José Contreras, professore di Filosofia del diritto all’Università di Siviglia, autore di numerosi studi sul rapporto fra diritto e storia, sul nesso fra liberalismo e conservatorismo, sul concetto di libertà, sulla dimensione religiosa nella società moderna e sui problemi attuali dell’identità europea, osservatore attento della società contemporanea e critico acuto delle sue configurazioni multiculturalistiche, critico cioè del politicamente corretto in tutte le sue sfaccettature e in tutte le sue applicazioni, è anche un esponente di spicco di Vox, del nuovo partito spagnolo che è sorto alla destra del Partido Popular e che ha saputo interpretare le istanze più urgenti e più drammatiche che il popolo di centrodestra avverte e alle quali il PP non è riuscito a dare risposta o almeno non risposte convincenti.

A Contreras mi accomuna una visione identitaria della cultura europea, una concezione della società che unisce il liberalismo al conservatorismo in una fusione che non elide nessun carattere dell’uno e dell’altro e che, anzi, ne esalta le rispettive caratteristiche in una nuova dimensione concettuale e pratica. Lo spazio di intervento del liberalconservatorismo è oggi dilatato dalla profonda crisi di idee e di valori nella quale è precipitata l’Europa, e le sue possibilità di successo sono direttamente proporzionali alla qualità delle risposte che esso è in grado di dare ai principali temi di questa crisi: l’indebolimento dell’identità, lo smottamento delle strutture culturali e religiose, l’erronea attribuzione delle difficoltà economiche al sistema capitalistico in quanto tale anziché a cattive gestioni di singole amministrazioni, l’immigrazione incontrollata e la relativa sostituzione dei caratteri culturali ed etnico-sociali tradizionali, il latente ma sempre acceso problema islamico, la perdita di sguardo prospettico che superi l’orizzonte limitato della legislazione ordinaria e spesso ristretta.

Sul piano più strettamente politico-culturale, questo movimento è lo strumento concettualmente attrezzato per arginare e smascherare l’ondata dell’ideologia comunista occultata nelle pieghe del politicamente corretto. Ho usato volutamente il termine “comunista”, perché in tutte le espressioni della sinistra europea sono rintracciabili tratti categoriali riconducibili all’ampio universo del comunismo. Il mancato riconoscimento di tali elementi produce un indebolimento delle difese da un’ideologia che nonostante tutte le evidenze storiche, tutti i fallimenti e i genocidi, circola ancora come se fosse la soluzione dei problemi dell’umanità. A questo paradosso, che è anche un insulto ai cento milioni di morti per mano di questa ideologia, il pensiero liberalconservatore leva la maschera, difendendo così la libertà europea dal multiforme cavallo di Troia che da decenni la intossica e la minaccia dall’interno. E così il liberalconservatorismo permette e legittima l’uso politico di un concetto che lo esprime nella forma più adeguata: destra liberale.

Linee di tendenza in questa direzione si sono manifestate, per esempio, nella cultura politica statunitense, dove le varie componenti della galassia del libertarianismo (attenzione: non del libertarismo o della sinistra liberal) si sono incontrate, in un lento movimento di avvicinamento reciproco, con quelle della non meno composita galassia del conservatorismo, in una nuova unità d’intenti che, fra l’altro, è stata alla base della vittoria dei repubblicani con Trump, e che avevamo già osservato nelle sue potenzialità all’epoca dell’amministrazione di George W. Bush. In Europa questo incontro è solido ma forse meno evidente e, di sicuro, non omogeneamente distribuito, a causa delle differenze, talvolta anche notevoli, fra le strutture politiche e i contesti culturali dei vari Stati.

In Italia, per ragioni che non possono essere qui analizzate ma che sono riconducibili a quel big bang nella politica italiana rappresentato dalla vittoria del Polo delle Libertà nel 1994, abbiamo una nozione non solo teoricamente approfondita e articolata, ma anche esperienzialmente vissuta di liberalconservatorismo. Che le vicende politico-governative successive e le traversie (errori inclusi) del centrodestra abbiano eclissato quel connubio, comprimendone la potenza e imbrigliando molti di coloro che vi erano impegnati, nulla toglie alla validità del progetto, che ora sta rinascendo con maggiore vigore, grazie non solo agli straordinari risultati elettorali (Lega e Fratelli d’Italia soprattutto) ma pure a una rinnovata consapevolezza politico-culturale. Per noi, liberalconservatorismo non è un termine contradditorio, non è un ircocervo politico. E da alcuni anni è iniziato a non esserlo anche in molti altri paesi europei. Certamente è così in Spagna, dove la destra liberalconservatrice ha trovato un referente politico nuovo, Vox, che ha assunto tale concetto come vessillo della propria azione. Con il professor Francisco Contreras, che ha partecipato recentemente al convegno sull’attualità del pensiero di Augusto Del Noce svoltosi a Trieste, abbiamo parlato dunque della situazione spirituale e politica dell’Europa attuale, chiedendogli anche di offrirci informazioni di prima mano su Vox e più in generale una lettura della situazione attuale della Spagna.

Prima di affrontare alcuni dei problemi cruciali che stanno sconvolgendo oggi l’Europa, partiamo dall’orizzonte spagnolo e dal momento storico che sta vivendo oggi la Spagna. Come va compreso e come si posiziona in questo contesto il nuovo partito politico Vox?

La comparsa di Vox nel 2014 ha risposto a un sentimento di orfanità politica di un settore importante della destra spagnola. Già nel 2008, il capo del Partido Popular, formazione egemone nella destra fin dagli anni Ottanta, aveva detto ai delegati a un congresso del partito: “che il liberali se ne vadano nel partito liberale; che i conservatori se ne vadano nel partito conservatore”. Non c’erano in Spagna né il partito liberale né quello conservatore, poiché si supponeva che il PP fosse appunto liberal-conservatore.

La patetica esortazione di Rajoy esprimeva seccamente ciò che potremmo chiamare “volontà di vuoto ideologico”, che è stato, disgraziatamente, uno dei segni caratteristici di identità del suo partito. Dalla Transizione post-franchista, la destra spagnola si è caratterizzata per uno strano complesso di colpevolezza storica e per l’accettazione dell’egemonia culturale e della superiorità morale della sinistra. Era una destra che rifiutava di combattere la sinistra sul terreno delle idee, e che aspirava a vincere le elezioni semplicemente in virtù della sua efficace gestione dell’economia (il presidente Aznar coniò una metafora per descrivere ciò: la “pioggia fina”; come il txirimiri o pioggia fina della Cantabria ti inzuppa i vestiti senza che te ne accorgi, così l’evidenza dei risultati della migliore gestione economica della destra andrà infiltrandosi nella coscienza degli elettori, senza necessità di un discorso ideologico che lo spieghi). Storicamente, il PP ha voluto rifuggire dalla battaglia delle idee e ingaggiare solo una “battaglia di risultati”. Con Rajoy questa vacuità ideologica giunse al parossismo. Il PP ha paura che i media di sinistra possano chiamarlo “franchista” o “conservatore”.

Il PP ottenne nel 2011 una maggioranza assoluta di 186 deputati, non tanto per merito proprio quanto per demerito dei socialisti di Zapatero, che lasciarono la Spagna al limite della bancarotta e portarono il commissariamento della UE nel Ministero di Economia. Nei suoi primi due anni di governo, Rajoy accentuò il profilo tecnocratico tradizionale nel PP: superò la crisi economica stringendo brutalmente la cinghia al settore privato (forte aumento delle imposte) e senza quasi stringerla però a quello pubblico; consolidò una per una tutte le leggi ideologiche ereditate da Zapatero (matrimonio gay, inseminazione artificiale, la legge di Memoria Storica, “violenza di genere” e “parità fra uomini e donne”, pretesti per l’indottrinamento di massa in un femminismo neomarxista che sostituisce la lotta di classe con quella fra i sessi). Inoltre, Rajoy si mostrò debole e impotente di fronte all’avanzata della minaccia secessionista in Catalogna. Da decenni, il governo nazionalista della regione autonoma catalana ha usato le istituzioni educative e i mezzi di comunicazione (addirittura sette reti fra televisive e radiofoniche) per inculcare il rifiuto verso la Spagna e il sentimento separatista; e dal 2012 la radicalizzazione del nazionalismo ha portato a un’aperta rivendicazione dell’indipendenza, totalmente incompatibile con la Costituzione spagnola. Il governo Rajoy rimase passivo dinanzi a ciò che, fin dal primo referendum illegale del 2014, era già una chiara ribellione o un colpo di Stato al rallentatore. Solo nell’ottobre del 2017, davanti al fatto compiuto della dichiarazione di indipendenza e al rischio di uno scontro civile, il governo del PP, assecondato dal partito Ciudadanos e dal Partito socialista, decise di applicare l’articolo 155 della Costituzione, che permette di sospendere l’autonomia regionale. Ma, invece di approfittare di tale sospensiva per iniziare a smantellare la trama educativo-propagandistica di indottrinamento separatista, il governo Rajoy si limitò a indire nuove elezioni di autonomia, che i nazionalisti tornarono a vincere ma di pochissimo (la Catalogna è oggi divisa al 50 per cento fra indipendentisti e spagnolisti).

Queste sono le circostanze che spiegano come mai, nel 2014, un pugno di persone si lanciò nella difficilissima impresa di fondare un nuovo partito di centrodestra che mandasse un segnale chiaro di difesa dell’unità della Spagna, della libertà economica e della vita, della famiglia e della natalità, come pure di rifiuto del femminismo delirante, dell’animalismo impazzito e di altre manifestazioni della sinistra postmoderna. Se creare un nuovo partito è sempre arduo, quando si tratta di un partito di destra la difficoltà sfiora l’impossibilità, data l’implacabile ostilità di uno spettro mediatico dominato in maniera schiacciante dalla sinistra (anzi, anche i media vicini al Partido Popular sono stati tanto aggressivi contro Vox quanto quelli di sinistra) e la tradizionale tendenza al “voto utile” diffusa nell’elettorato conservatore (in Spagna, l’elettore di destra si accontenta di “frenare la sinistra” ed è ossessionato dall’idea di non disperdere il voto).

Vox ha recuperato, con orgoglio politico e con nobiltà d’animo, il concetto di destra, una parola che molti vorrebbero espellere dal vocabolario politico e che, invece, dovrebbe essere valorizzata, senza alcun accento fascista bensì con la consapevolezza che essa esprime una dimensione, spirituale e non solo politica, indispensabile oggi in tutta Europa per fare chiarezza nello scenario dominato dalla confusione concettuale e politica. Potremmo dunque dire che Vox è un partito di destra liberalconservatore?

Sì, è così. Il concetto di “destra” sembra essere delegittimato in tutto l’Occidente dal 1945, quando il comunismo riuscì nel colpo da maestro di fissarsi nell’immaginario collettivo come “l’altro dal fascismo”, nello stesso momento in cui il fascismo era demonizzato come il male assoluto. Se il fascismo è il male assoluto e se il comunismo è “il totalmente altro dal fascismo”, allora il comunismo è il bene assoluto, e la destra democratica, suppostamente più prossima al fascismo, viene guardata con sospetto, obbligata a farsi perdonare la vita da una sinistra che si arroga la superiorità morale. In Spagna si è ripetuta questa operazione, in epoca più recente e con effetti più intensi, dopo la morte di Franco (il franchismo, tranne fra il 1936 e il 1945, non fu esattamente fascismo, come riconosce il grande specialista Stanley Payne, ma un regime autoritario di taglio nazional-cattolico e, nei suoi ultimi quindici anni, de-ideologizzato e sviluppista-tecnocratico).

Certo, l’operazione di propaganda “comunismo = antifascismo” era una truffa; il comunismo era oggettivamente vicino al fascismo – molto più di quanto fosse vicino al liberalismo – nelle questioni chiave: rifiuto della democrazia e delle libertà fondamentali, indottrinamento massiccio della popolazione in una ideologia di Stato, concezione della politica in termini schmittiani di amico-nemico e della guerra senza quartiere (contro i “nemici della nazione” o gli ebrei nel caso del nazismo; contro i kulaki, i borghesi, i sacerdoti e i “deviazionisti” nel caso del comunismo). Perfino nel campo economico, il fascismo, senza arrivare alla soppressione della proprietà privata, si caratterizzò tuttavia per un forte controllo statale del mercato. Entrambe le ideologie erano anti-liberali e anti-borghesi.

Il vero antifascismo non è la sinistra comunista o socialista, ma il liberalismo conservatore, con la sua insistenza su strette limitazioni legali e morali al potere politico e con la sua scommessa sui diritti individuali non negoziabili (diritto di proprietà, diritto alla vita, di libertà religiosa, di pensiero e di espressione), così come sui “corpi intermedi” come la famiglia, le istituzioni  educative indipendenti o le chiese, indispensabili per lo sviluppo dell’individuo e la protezione di quest’ultimo dinanzi all’onnipotenza dello Stato.

E’ ovvio, Vox sta agli antipodi del fascismo; molto più lontano da esso di quanto lo siano quei partiti di sinistra (o perfino del centro, come Ciudadanos) che ci tacciano di “fascisti”. Infatti, ciò che caratterizza Vox è la difesa radicale della libertà nei diversi ambiti nei quali essa è in pericolo. Per esempio, il diritto delle famiglie a che i loro figli ricevano un’educazione in lingua spagnola (per quanto sembri incredibile, è un diritto totalmente negato in Catalogna e intaccato in altre aree come la Galizia, dove un governo regionale del PP obbliga a impartire la metà del curriculum in galiziano). O il diritto di proprietà, eroso dalla sempre crescente pressione fiscale socialdemocratica (Vox difende l’abbassamento delle tasse, conseguibile mediante lo smantellamento dell’amministrazione ridondante, soprattutto regionale). O ancora la libertà di pensiero, minacciata dalle leggi di Memoria Storica che impongono una versione parziale – e totalmente manichea: la destra è colpevole di tutto, la sinistra ha invece sempre difeso la democrazia e la libertà – della storia spagnola del periodo 1931-1978. O la libertà di espressione, minacciata da “leggi di diritti LGBT” che trasformano in “discorso di odio” qualsiasi espressione di dissidenza dinanzi ai dogmi della lobby LGBT, assunti dalla sinistra e dal centro-destra. O l’uguaglianza di fronte alla legge – un principio essenziale del liberalismo – distrutta da “leggi di violenza di genere” che istituiscono un nuovo reato che, per definizione, può essere commesso solo da maschi, mentre debilitano le garanzie processuali mettendo in pericolo la presunzione di innocenza. O la libertà (collettiva) della cittadinanza spagnola di decidere quanta immigrazione vuole avere, e di quale provenienza. O il diritto alla vita, premessa di tutti gli altri (Vox si oppone all’aborto e all’eutanasia).

Qual è la posizione di Vox sulle grandi questioni oggi al centro dell’agenda europea, tra cui il centralismo burocratico, la politica economica, l’immigrazione, il deficit di sicurezza, la diffusione del multiculturalismo, la crescita delle comunità islamiche e l’oblio delle nostre radici giudaico-cristiane?

Vox è europeista nel senso di affermare l’appartenenza indiscutibile della Spagna all’Europa (Julián Marías scrisse che la Spagna è la nazione più europea, perché si è conquistata la sua europeità “per scelta”, lottando per quasi otto secoli contro l’invasore islamico) e di riconoscere il merito storico delle comunità europee, la cui fondazione obbedì al lodevole proposito di sotterrare definitivamente l’ascia di guerra fra le nostre nazioni. E riconosciamo pure il ruolo positivo giocato dall’euro, che funziona come un surrogato ragionevole del metro di misura oro, evitando che i governi possano ricorrere all’espediente demagogico della “svalutazione competitiva” (che impoverisce tutti) e all’ampliamento arbitrario della massa monetaria, anziché affrontare le necessarie riforme di riduzione della spesa pubblica e delle dimensioni dello Stato. Vox crede nelle “quattro libertà” che stanno alla base del progetto europeo: libera circolazione intracomunitaria di beni, servizi, persone e capitali.

Vox è però contrario alla visione euro-federalista che aspira a trasformare la UE in un vero superstato nel quale si dissolvano le sovranità nazionali. Gli euro-federalisti – in Spagna, probabilmente tutti gli altri partiti, e chiaramente Ciudadanos – credono in una interminabile “costruzione europea” che non può culminare se non nell’utopia del superstato. In Vox vogliamo invece che la UE sia ciò che progettarono i suoi fondatori nel 1957: un mercato comune. Ci identifichiamo con lo scenario n. 2 – “solo il mercato unico” – dei cinque sciorinati dalla Commissione Europea nel suo Libro Bianco del 2017 sul futuro della UE. E crediamo che si possano denunciare i difetti della UE realmente esistente – opacità, burocratizzazione, ipertrofia regolatoria, deficit democratico – senza per questo meritare lo stigma di “euroscettici”.

Soprattutto rifiutiamo che la UE si ideologizzi e faccia pressione sugli Stati-nazione in materie che non possiedono alcuna relazione con la sostenibilità del mercato unico. Negli ultimi tempi, la Commissione e il Parlamento europei hanno esibito un atteggiamento di evidente ostilità contro l’Ungheria e la Polonia. Sono convinto che la radice di questo atteggiamento risiede nel fatto che questi paesi del gruppo di Visegrad rappresentano un’alternativa conservatrice nel seno di una UE sempre più inclinata verso il marxismo culturale (femminismo radicale, “antirazzismo” che si traduce alla fine in porte aperte all’immigrazione extracomunitaria, ecc.).

Il principale problema che l’Europa soffrirà a medio termine è l’inverno demografico e l’invecchiamento della popolazione: con una media di 1,6 figli per donna (1,3 in Spagna e in Italia), l’Europa si trova a un 25 per cento al di sotto dell’indice di rimpiazzo generazionale. Di fronte a ciò ci sono due soluzioni: aprire le frontiere all’immigrazione extracomunitaria o incentivare la natalità della popolazione autoctona. La burocrazia di Bruxelles sembra aver optato per la prima. Ungheria, Polonia e altri paesi dell’Europa ex-comunista stanno invece mostrando che è possibile l’altra via: scommettere sul rilancio della famiglia stabile e sulla promozione della natalità degli europei nativi. Però queste politiche sono qualificate come reazionarie, omofobe e lesive dei diritti della donna (così si legge nei paragrafi 39 e 40 del Rapporto Sargentini contro l’Ungheria, approvato nel settembre 2018 dal Parlamento Europeo: rinvio al mio articolo “Hungría en el banquillo” pubblicato in Actuall.com).

La tua posizione liberalconservatrice – che recupera lo spirito della tradizione ma non lo sclerotizza in una sua riproposizione statica, bensì lo dinamizza in una prospettiva liberale –, permette di coniugare la destra con le istanze di quel liberalismo che condivide i valori occidentali da conservare e che con il conservatorismo oggi si coniuga per difendere appunto la libertà. Un tuo recente libro si intitola Una defensa del liberalismo conservador: come sintetizzeresti la tua prospettiva teorico-politica?

In sostanza, nel mio libro sostengo che i liberali classici come Locke, Smith o Fredéric Bastiat (e pure grandi liberali del Novecento come Hayek) non erano “libertari” nel senso attuale. Per dirla in modo semplice: erano liberali economici e politici, ma conservatori sociali e morali. Ritenevano che la libertà politica ed economica si renda sostenibile sul lungo periodo soltanto in un’atmosfera sociale caratterizzata dalla solidità di istituzioni come la famiglia e dalla pratica generalizzata di virtù private come l’operosità, il mantenere le promesse, l’amore per i figli, la fedeltà coniugale, il risparmio o l’autosufficienza (il cittadino libero deve provvedere al proprio benessere, senza dipendere da altri, e meno che meno dallo Stato; invece la nozione socialdemocratica di “diritti sociali” implica che, per il solo fatto di esistere, io abbia diritto a che qualcuno – ma non è mai ben chiaro chi – mi paghi la sanità, l’educazione e la pensione di anzianità).

Il libertarianismo “progressista” estende la libertà di scelta dall’ambito economico a quello bioetico e familiare: i libertari progressisti difendono, dunque, l’aborto libero e i “nuovi modelli di famiglia” (coppia di fatto, matrimonio omosessuale, ecc.), e pure le nuove tecniche riproduttive come l’inseminazione artificiale di donne senza partner maschile o gli “uteri in affitto”. Noi liberalconservatori respingiamo tutto questo: crediamo che il diritto alla vita sia il primo dei diritti (e che, pertanto, tradiscano il liberalismo i libertari che lo negano ai feti), e pure che l’istituzione familiare debba essere conservata (oggi lo è solo nominalmente, poiché il termine “famiglia” è arrivato a significare “insieme di persone che si vogliono bene e vivono insieme”, senza che importi il numero, il sesso o la durata). Un bambino ha bisogno di suo padre e di sua madre. La nostra società sta sacrificando il benessere dei bambini alla libertà amorosa degli adulti.

Perché secondo te è così difficile spiegare la dimensione politico-culturale del liberalconservatorismo a quei liberali che pur non essendo di sinistra non riescono a comprendere la necessità storica di questa nuova posizione?

Immagino che molti di essi siano condizionati dal pregiudizio (per altro assurdo) che “un liberale non può essere conservatore”, che il liberalismo è l’antitesi del conservatorismo. Ora, ogni liberale coerente dev’essere conservatore, almeno nel senso di conservare le istituzioni della libertà (Stato piccolo, separazione dei poteri, garanzie processuali, ecc.) e l’atmosfera morale-culturale che rende sostenibile la libertà (un’atmosfera che include, a mio modo di vedere, una famiglia forte).

Possono anche sentirsi attratti dall’idea semplicistica di “massimizzazione della libertà in tutti gli ambiti”, incluso ad esempio il diritto a immigrare o il diritto a progettare le relazioni familiari-amorose come a uno gli pare e piace. Ora, se immigrano milioni di persone provenienti da culture anti-liberali, la libertà si troverà in pericolo. E se liberalizziamo le relazioni amorose fino al punto che siano ogni volta meno i bambini che restano con suo padre e sua madre – come sta accadendo oggi –, alla fine avremo madri singole totalmente dipendenti… dallo Stato. A maggiore instabilità familiare corrisponde maggiore dipendenza dai servizi sociali. A meno famiglia, più Stato. Viceversa, uno Stato minimo presuppone famiglie solide, come intendevano i liberali classici.

Con i governi di Pedro Sánchez l’immigrazione in Spagna è decuplicata rispetto all’era Rajoy. La gran parte degli europei, spagnoli ovviamente inclusi, è contraria a un’immigrazione massiccia e incontrollata. Ciò nonostante, il PSOE ha vinto le recenti elezioni spagnole: come spieghi questo fatto? 

La società spagnola è sottoposta a un costante bombardamento propagandistico pro-immigrazione da parte dei media. E perciò c’è bisogno di molto coraggio per sostenere in modo argomentato posizioni anti-immigrazione: uno riceve automaticamente il marchio di “xenofobo”. E invece chi – come Sánchez – si mostra aperto e tollerante, guadagna l’applauso di tutti quelli che ancora non soffrono direttamente, nei loro quartieri, gli inconvenienti dell’immigrazione di massa.

D’altro canto, la Spagna ha avuto la fortuna di contare su una immigrazione in buona parte ispanoamericana, più affine dal punto di vista linguistico e culturale alla popolazione nativa (sebbene ponga problemi di delinquenza e di dipendenza assistenziale). Ciò contribuisce a ritardare la comparsa di una corrente di opinione scettica rispetto all’immigrazione di massa. Ma ora sta arrivando. In città come El Ejido (Andalusia), dalla forte presenza di immigrati, Vox è stato il partito più votato.

Cosa possiamo fare, cosa possono fare gli intellettuali liberalconservatori che respingono il paradigma del politicamente corretto? 

Nel mio caso, da qualche anno ormai ho abbandonato la filosofia accademica, per rivolgermi a un “pensiero di battaglia” accessibile a un pubblico più ampio. Credo che il marxismo culturale e la correttezza politica possano portare la nostra società libera e prospera al suicidio, e ritengo che sia mio dovere contribuire all’articolazione di un’alternativa intellettuale al buonismo progressista. Disgraziatamente, noi intellettuali conservatori siamo carenti, in Spagna, di canali di espressione adeguati (ho avuto problemi, ad esempio, per trovare un editore per il mio ultimo libro La fragilidad de la libertad; e per quanto riguarda la carta stampata, sono obbligato a scrivere su giornali online che, nonostante la loro qualità, hanno poca diffusione, come Actuall.com o Disidentia.com). Se fossi stato eletto al Parlamento Europeo (ero candidato al quinto posto nella lista di Vox, ma non sono stato eletto, perché Vox ha conquistato solo tre seggi), avrei continuato la mia battaglia in un luogo di maggiore visibilità, ma l’esito elettorale non mi è stato favorevole (entreranno nel Parlamento Europeo, invece, deputate di Podemos che difendono pubblicamente l’eredità sovietica e negano i cento milioni di morti del comunismo: per esempio, Sira Rego, con la quale ebbi un confronto televisivo sulla figura di Lenin, che parla da sé).

Aggiornato il 18 giugno 2019 alle ore 09:55