“Le sette morti di Evelyn Hardcastle”: Agatha Christie 2.0

giovedì 22 agosto 2019


Come scrivere un libro alla Agatha Christie, quando Agatha Christie ha già scritto praticamente tutte le varianti possibili e immaginabili di un suo libro? È questo il dilemma letterario di fronte al quale si è trovato l’autore britannico Stuart Turton che, essendo laureato in filosofia di sicuro era già avvezzo ad arrovellarsi il cervello con quesiti che non necessariamente trovano una risposta.

Poi, però, l’idea geniale, l’epifania: si potrebbe calare il suddetto romanzo in un loop temporale in stile “Giorno della Marmotta” e, perché no, già che ci siamo, in un gioco di scambio di corpi alle “Quantum Leap”.

È così che nasce “Le sette morti di Evelyn Hardcastle”, esordio letterario di discreto successo, edito in Italia da Neri Pozza: con la pretesa di rivoluzionare il canone del giallo classico mixandolo con alcuni riferimenti culturali tremendamente anni Novanta, Turton elabora una sorta di mega escape room letteraria col morto. E con un loop temporale, ovviamente.  

Molto brevemente, e senza rivelare troppo: il protagonista del romanzo, Aiden Bishop, si risveglia in un corpo che non è il suo, condannato a risolvere un difficile enigma prima di poter riconquistare la libertà che ha misteriosamente perso. Ha sette giorni e sette incarnazioni a disposizione per riuscire a farlo, scoprendo tutti i segreti che si celano dietro le pareti della maestosa e diroccata Blackheath House, la tenuta dove tutti i personaggi sono ospitati per partecipare al ricevimento voluto dalla famiglia Hardcastle proprio nella data in cui ricorre la scomparsa del rampollo di casa, Thomas. Durante la festa si consuma l’omicidio di Evelyn Hardcastle, altra giovane erede della disgraziata casata, destinata a morire ogni sera alle 23:00 in punto, sempre alla stessa maniera, fino a che Aiden non riuscirà a scoprire per mano di chi. Un mistero nel mistero che crea un vortice di intrighi metanarrativi.

Le premesse sembrerebbero interessanti e, in effetti, lo svolgimento della trama regala diverse soddisfazioni e intrecci ben congeniati. L'inizio in medias res e la narrazione in prima persona (una prima persona sperduta e in via di ricostruzione) funzionano molto nel calare il lettore al centro pulsante dei misteri del romanzo, lo fanno sentire un ingranaggio ticchettante e nervoso di una specie di bomba a orologeria che minaccia di esplodere da un momento all’altro.

Un esperimento interessante, ma che avrebbe potuto essere ancora più potente se l’autore avesse sfruttato meglio il potenziale orwelliano di alcuni spunti della trama e soprattutto della cornice narrativa da lui progettata, che, purtroppo, ha avuto un po' troppo fretta di chiudere, imponendo un’accelerazione un po’ troppo brusca agli eventi. Questo crescendo di intensità e di velocità, infatti, sebbene giovi al ritmo e coinvolga il lettore, non facilita la memorizzazione dei personaggi (da sempre il picchetto su cui si reggono tutti i libri gialli ben costruiti) e la comprensione degli intrecci temporali che sono volutamente molto estremi e che alla fine si risolvono così velocemente da generare un po’ di disorientamento.

Non dobbiamo dimenticarci che siamo in una società in cui, ormai, il linguaggio narrativo delle serie tv la fa da padrone e, inevitabilmente, la letteratura deve temere il confronto con la narrazione filmica, specie quando si parla di flashback e salti temporali. Proprio perché ormai anche i lettori più “forti” sono in parte impigriti e assuefatti alle formule del racconto per immagini, che toccano corde percettive più immediate, uno scrittore che si rispetti dovrebbe fornire ganci un po' più solidi per unire i fili del grande intreccio che ha pensato in partenza. Qui mi sembra che Turton non riesca fino in fondo, perciò alcune epifanie perdono un po' di forza, dal momento che arrivano al lettore solo attraverso la faticosa realizzazione del protagonista che a volte sembra un po' troppo portato ad autospiegarsi e autocommentarsi quel che accade, solo per dare uno strumento in più al lettore, facendo perdere naturalezza alla narrazione. Tutto un pochino sforzato.

Il romanzo comunque si fa leggere, e l'interesse di arrivare alla fine c'è tutto. In un giallo che si rispetti, forse, alla fine è proprio questo quello che serve. Poi sarà il tempo a decidere se veramente valeva la pena modificare il canone imposto dalla regina, Agatha Christie.


di Monica Gasbarri