“La libertà consiste nell’obbedire alle leggi

che ci siamo dati, la servitù nell’essere costretti

a sottomettersi ad una volontà estranea”.

Questa notte ho conosciuto il Terrore. Ora so cosa si prova quando un ladro s’intrufola in un appartamento con la pistola in pugno e non si limita a rubare ma addirittura uccide il proprietario. Mi trovavo a letto nella mia casa in montagna, dove mi reco d’estate e nei weekend, quando a un certo momento ho sentito un rumore proveniente dal soggiorno, un colpo secco, come se qualcuno avesse cercato di sollevare dalla base la serranda della portafinestra che s’affaccia sul giardino lasciandola poi ricadere di botto. Quello è l’unico lato della casa a livello col terreno stradale perché nella parte posteriore l’edificio, che si affaccia su un folto bosco, scende giù di alcuni metri sicché le finestre sono piuttosto alte ed è difficile che qualcuno possa arrivarci. Ebbene, mi sono alzato e zitto zitto sono andato a vedere. Non ho acceso nemmeno la luce, mi sono limitato a tirare su leggermente la serranda per sbirciare attraverso gli spazi fra le stecche di cui è formata. Niente. Sarà stato uno dei soliti gatti, mi son detto, e sono tornato nel mio letto. Ho cominciato ad almanaccare. Oggi, ho pensato, con tutte le stragi che succedono, viviamo continuamente in uno stato di vero e proprio terrore. Oltretutto quella mia casa è l’ultima di una serie di villette disposte lungo una strada in salita ed essendo praticamente isolata la boscaglia che sta alle sue spalle mi preoccupa non poco. Da qui il terrore di questa notte, che mi ha richiamato i tempi della Rivoluzione francese, e così nella mia mente si è formata l’immagine di Robespierre.

“Monsieur!”, ho esclamato, mentre il sonno, faticosamente, cercava d’impadronirsi di me. E lui:

“Lo sai, cittadino, perché mi chiamo Robespierre? Una leggenda lo spiega così. Robert e Pierre erano due fratelli, figli di Robert François Damiens, l’autore del fallito attentato a Luigi XV re di Francia, condannato a morte per squartamento. I due fratelli costretti a cambiare cognome, unirono i loro due nomi di battesimo formando così Robertpierre, che divenne Robespierre. Uno dei fratelli sparì, l’altro andò a stabilirsi ad Arras sotto il nuovo cognome esercitando la professione di avvocato. Io sarei stato uno dei suoi figli: dico sarei stato perché, ripeto, si tratta di una leggenda, che circolava ad Arras anche durante la Rivoluzione, messa in giro probabilmente perché anch’io, come Damiens, non vedevo di buon occhio il re”.

“Quindi la sua nascita è avvolta nel mistero”.

“In realtà le origini riconosciute della mia famiglia risalgono al 1452. Io nacqui ad Arras il 6 maggio 1758 e mi furono imposti i nomi di Massimiliano Isidoro Maria”.

“Lei è stato chiamato l’Incorruttibile: tutti, concordemente, l’hanno definita con questo appellativo, che le fa onore di fronte al dilagare di una corruzione senza limiti, come accade anche oggi, del resto. Lei voleva farne piazza pulita, togliere il marcio che come sempre, ma allora forse di più, imbrattava le mani dei potenti, degli oppressori del popolo, delle lobbies, dei poteri forti, come si dice oggi. E non esitava a colpire anche gli amici, i parenti, tale era la sua moralità. Oggi gli amici e i familiari, almeno nel nostro paese, i potenti li sistemano nei posti più ambiti e più remunerati”.

“Io mi sono limitato a raccomandare per un impiego mio fratello Augustin. Tutto qui. Se vuole, a parte l’incorruttibilità, posso elencarle tutte le altre mie doti: probità, elevatezza d’animo, inalterabile fermezza, fiera indipendenza, grandi vedute, colpo d’occhio penetrante, capacità di discernere le verità utili, eloquenza, fedeltà ai princìpi, modestia, onestà. E potrei continuare”.

“Sua sorella Carlotta ha scritto che lei da ragazzo partecipava raramente ai giuochi e ai piaceri dei suoi compagni, e amava star solo per meditare a suo agio, passando ore intere a riflettere”.

“Ero anche un po’ miope, timoroso, debole, sdegnoso per la mia superiorità e la mia perfezione, enigmatico e misterioso, fin dalla mia prima adolescenza”.

“Lei è stato un politico ma era anche un uomo di legge, un avvocato”.

“Iniziai la mia carriera ad Arras, la mia città natale, dopo essermi iscritto nel registro degli avvocati di Parigi. Abitavo in un piccolo appartamento di rue Saumon con mia sorella Charlotte. Cominciai ad esercitare l’avvocatura nel gennaio del 1782. Il 9 marzo fui nominato dal vescovo de Conzié giudice del Tribunale vescovile. Ma mi resi subito conto che la professione di giudice non era fatta per me, né si confaceva col mio spirito d’indipendenza e la mitezza del mio carattere. Avevo inoltre un terrore estremo di dover pronunciare sentenze di morte. Quando, il 30 maggio 1791, presi la parola all’Assemblea, che discutendo il nuovo codice penale s’era posto il problema se si dovesse o no mantenere la pena di morte, gridai: No! E la mia voce fu la prima che in Francia si levò per reclamare con forza ciò che Beccaria aveva già chiesto con tanta convinzione. Cancellate dai codici francesi le leggi di sangue che ordinano gli assassini giuridici!, gridai. Ha la società il diritto di uccidere un colpevole al cospetto di una folla indifferente ed ignorante? Ascoltate la voce della giustizia e della ragione: essa vi grida che le sentenze umane non raggiungono mai tale sicurezza da permettere che la società possa dare la morte a individui condannati da altri uomini soggetti essi stessi all’errore. Ebbene, dopo qualche mese da quando fui nomi­nato giudice dovetti effettivamente condannare a morte uno scel­lerato. Ma l’idea d’aver emesso una sentenza simile mi ossessionò a tal punto che inviai subito le mie dimissioni da giudice all’arcivescovo, consacrandomi interamente alla carriera di avvocato”.

“Lei assunse anche la difesa degli umili e degli oppressi”.

“Col mio Cahiers de doléances mi battei a favore della corporazione dei ciabattini, la più povera e numerosa della provincia, e dei contadini di Arras, rifiutando sempre ogni privilegio che i nobili e anche la media e piccola borghesia volevano concedermi. Contemporaneamente mi battei per l’eguaglianza giuridica e sociale, per la libertà di stampa, il suffragio universale e molti altri diritti civili. I nobili e la borghesia mi mettevano il bastone fra le ruote. Inizialmente m’isolarono, tanto da far saltare la mia elezione all’assemblea provinciale. Ma l’anno dopo, grazie al programma con cui mi presentai alla riunione preliminare del Terzo Stato di Arras, fui eletto deputato presso gli Stati generali, finché l’anno successivo, nel marzo del 1790, fui nominato presidente del club dei giacobini. La situazione era difficile perché si temeva una coalizione militare degli altri paesi europei contro la Francia. Nell’ottobre dello stesso anno fui eletto primo magistrato al tribunale del distretto di Versailles”.

“Una carriera rapidissima la sua, e molto brillante. Ma veniamo al Terrore e alla ghigliottina. Lei prima, nel 1791, era contrario alla pena di morte in quanto – disse – i giudizi umani non sono mai abbastanza certi perché la società possa condannare a morte un uomo. Com’è che in seguito cambiò idea?”.

La pena di morte in generale è un delitto e ciò per l’unica ragione che non può essere giustificata in base ai princìpi indistruttibili della natura, salvo il caso in cui sia necessaria alla sicurezza degli individui o del corpo sociale. Ma quando si tratta di un re il cui solo nome attira la piaga della guerra sulla nazione agitata, bisogna agire con coraggio e determinazione. Per questo nel mio discorso del 3 dicembre del ‘92 pronunciai con rincrescimento questa fatale verità e chiesi che la Convenzione dichiarasse il re Luigi traditore della nazione francese e criminale verso l’umanità”.

“In quell’occasione lei disse che la forza di un governo rivoluzionario risiede nella virtù e nel Terrore. Perché?”.

“Intanto il termine Terrore va inteso come Condanna a morte degli avversari politici, e poi dev’essere inquadrato in un contesto di emergenza assoluta, ed è lì che va visto il mio cambiamento di rotta, il senso del periodo più sanguinoso della rivoluzione, passato appunto come il Terrore”.

“Una caricatura dell’epoca condensò quella parola in una vignetta in cui lei ghigliottinava il boia, ultimo uomo rimasto in vita, dopo che lei aveva fatto giustiziare mezza Francia”.

“Il terrore fu una necessità. A parte il fatto che una guerra esterna rischiava di far cadere ogni speranza di rinnovamento che era nella rivoluzione, quando un popolo diventa, per dirla col vostro Manzoni, ‘un volgo disperso che nome non ha’, quando la virtù è morta e la corruzione dilaga in modo incontrollabile, solo il terrore può porvi rimedio. Si è mai chiesto perché Jahvèh, il Dio della Bibbia, era così severo col suo popolo? Perché aveva instaurato un clima di terrore con minacce, punizioni, stragi, addirittura, a migliaia, a diecine di migliaia? Se il popolo non fosse stato così insensato, insensibile alle leggi divine, così cocciuto e ostinato, non avrebbe sofferto tutto quel che ha sofferto”.

“Poi Dio, però, incarnandosi in Cristo, divenne benevolo e misericordioso”.

“Già. E il risultato? Il punto è questo. Un popolo ogni tanto ha bisogno di rinnovarsi, di purificarsi, ed è da qui che nascono le guerre, il terrore, la peste, che come una scopa – dice sempre il vostro Manzoni – spazza via tutto il marcio, e la Giustizia arriva a farsi terribile e crudele, quando la corruzione è divenuta generale e non ha altra cura che il terrore. Ma non per questo scompaiono dagli animi di chi amministra la Giustizia la comprensione e la bontà (come nel Dio di Abramo non scompare l’amore per il suo popolo). D’altra parte è così che cammina la Storia. E poi bisogna vedere le due facce della medaglia: la rivoluzione francese se da un lato ha comportato violenze e stragi (come accade in tutte le guerre e in tutte le rivoluzioni), dall’altro ha messo in luce, per la prima volta e in modo così chiaro e sentito, ideali di libertà e di giustizia quali mai nella Storia si erano avuti. E ha dimostrato, e insegnato, che le rivolte degli oppressi sono sempre la conseguenza, inevitabile e inesorabile, della violenza degli oppressori. Quando una rivoluzione, giusta e sacrosanta, si trova sull’orlo di un abisso è facile che le forze controrivoluzionarie abbiano il sopravvento e che tutto il rinnovamento politico e sociale promosso dalla rivoluzione venga distrutto. Il Terrore è servito ad impedire ciò”.

“E che ne pensa, oggi, della ghigliottina?”.

“Quello strumento ci fa tanto orrore, ma il suo impiego fu dovuto a un sentimento umanitario, visto che grazie ad essa fu possibile rendere la decapitazione istantanea, senza il protrarsi delle sofferenze del condannato. Molto più disumana era la decapitazione con la scure. Per questo i Francesi dicevano scherzosamente: Il dottor Guillotin ha trovato un rimedio efficacissimo contro il mal di testa. E per questo molti condannati affrontarono la morte con un coraggio incredibile. L’ex sindaco di Parigi, mentre saliva sul patibolo, ad uno del pubblico che gli aveva gridato Cittadino, tu tremi! rispose: Sì, ma per il freddo. E un cortigiano, mentre andava alla morte, ebbe persino una battuta di spirito, quando, essendo inciampato in un gradino del patibolo, mormorò: Dicono che inciampare porti sfortuna: se fossi superstizioso tornerei indietro”.

“Lei ha detto che l’immoralità è la base del dispotismo, come la virtù è l’essenza della Repubblica, che il terrore senza la virtù è funesto, ma la virtù senza il terrore è impotente”.

“Io, insieme a tutti i rivoluzionari onesti, ho voluto sostituire la morale all’egoismo, la probità all’onore, i princìpi alle usanze, i doveri alle convenienze, l’impero della ragione alla tirannia della moda, il disprezzo del vizio al disprezzo della sventura, la fierezza all’insolenza, la grandezza dell’animo alla vanità, l’amore della gloria all’amore del denaro, il merito all’intrigo, la grandezza dell’uomo alla piccolezza dei grandi e così via”.

“Comunque il suo voto personale contò sempre nelle condanne a morte”.

“Solo un dodicesimo di quelli dell’intero Comitato, né io disponevo di un esercito personale con cui imporre un regime. Queste misure drastiche erano quindi considerate necessarie dall’intero Comitato e anche dalla Convenzione, più che decise da me”.

Mi parli della sua fine”.

“Devo precisare che furono i miei nemici a mettere in giro la voce che col Terrore io volessi restaurare la monarchia costituzionale istituita nel ‘91 autonominandomi reggente del regno. Altri mi calunniarono e molti puntando il dito verso di me gridarono: Abbasso il tiranno! E come io esitai nel replicare uno gridò: C’est le sang de Danton qui t’étouffe (è il sangue di Danton che ti soffoca). Tentai invano di parlare, finché alle cinque del pomeriggio venni arrestato insieme ad altri fra cui Saint-Just e il mio fratello minore Augustin: La Repubblica è perduta!, esclamai. Un gendarme mi fracassò la mascella. Il carnefice, dopo avermi legato alle tavole, mi strappò bruscamente le bende della ferita. Lanciai un ruggito che si udì fino alla estremità della piazza. Un mormorio di raccapriccio corse nella folla. Poi un rumore sordo e la mia testa rotolò nel paniere”.

A quel punto ho visto e sentito nettamente la lama della ghigliottina che mi piombava addosso. Ho avuto un sussulto e istintivamente ho portato una mano al collo, gemendo. Al che mia moglie: “Quando ti deciderai a far mettere la grata di ferro alla portafinestra del soggiorno?”.

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Giudicato dai contemporanei un mostro di crudeltà ed ambizione, non si tardò a vedere che quelle due parole non bastavano a spiegare un tal complesso di intenti ed azioni. Non si poté non riconoscere in quell’uomo una persuasione indipendente da ogni suo interesse esclusivo ed individuale, e un ardore tanto vivo e ostinato quanto la persuasione era ferma. E di più la probità privata, la noncuranza delle ricchezze e dei piaceri, la gravità e la semplicità dei costumi, non sono cose che s’accordino facilmente con un’indole naturalmente perversa e portata al male. Aveva imparato da Rousseau che l’uomo nasce buono, e che la sola cagione del male che fa e del male che soffre sono le viziose istituzioni sociali. Sul fondamento di quell’assioma era fermamente persuaso che, levate di mezzo le istituzioni artificiali, unico impedimento alla bontà e alla felicità degli uomini, il mondo si cambierebbe in un paradiso terrestre” (Alessandro Manzoni nel dialogo dell’invenzione).

Aggiornato il 10 luglio 2020 alle ore 14:41