Opinioni a confronto: essere o non essere?

martedì 24 novembre 2020


“Ciao, Renato. Ci sei, o non ci sei?”.

“Come sarebbe a dire? Sono qui! Anche se ci parliamo per telefono”.

“Eh! Questo è il problema! Esserci, o non esserci? È d’un’anima nobile più degno soffrir paziente i pungoli e gli strali dell’avversa fortuna, o insorger contro un mare di dolori e ad essi porre termine ribellandosi?’”.

“Ma cosa c’entra Amleto?”.

“C’entra, c’entra. Oggi vorrei parlare della lingua, e l’oggetto della nostra conversazione è il verbo essere, con tutto ciò che può venirne fuori. Tu sai che io sono anche un linguista, ma non conosci, e pochi sanno, oggi, anche se ne ho parlato in un mio libro (Avanti march!), come lo sono diventato. Ero ancora bambino e quando qualcuno mi chiedeva qualcosa che non sapevo, invece di dire “non lo so” rispondevo “sonnolò”, cioè anagrammavo l’espressione. Era un atto spontaneo, e così pure facevo spesso con altre parole, per cui, ad esempio, il Diavolo, per me, era un Dio alla rovescia”.

“In che senso?”.

“Nel senso che anagrammando Diavolo mi veniva fuori Dio vola, e Demonio, anagrammato, diventava meno Dio. Così, mentre i bambini di solito giocano mettendo le lettere dell’alfabeto sopra un asse di legno o di cartone, io scombinavo, inconsciamente, le vocali e le consonanti di una stessa parola, come da “Roma” si può trarre “amor”, “ramo”, “orma”, “mora” e “armo”. Così fece Trilussa col suo cognome, che era Salustri. E così fece Dio con la Creazione, disponendo le lettere alfabetiche in una serie innumerevole di combinazioni “che la bocca non può dire”, ma di cui si può avere un’idea se si pensa che anagrammando in tutti i modi possibili una parola di sei lettere ne vengono fuori 720, che per noi non hanno alcun significato, ma per Dio sì, perché le lettere dell’alfabeto sono dei suoni. Pensa quanto tempo e quanta pazienza ci vogliono per anagrammare in tutti i modi possibili precipitevolissimevolmente: secondo alcuni occorrono migliaia di anni”.

“Tu la parola ce l’hai sempre sulla bocca”.

Perché, tu no? Fai pure l’avvocato! Tutti quando parlano hanno la parola sulla bocca, ma molti spesso la usano male. Fu nella dotta Bologna, in prima elementare, che cominciai a prendere coscienza di quel fenomeno così misterioso e complesso che è il linguaggio umano. Le pareti dell’aula erano tappezzate di cartelloni riproducenti gli oggetti più disparati con accanto i loro nomi, che la maestra pronunciava sillabandoli e ci faceva ripetere in coro, tutti insieme. Ebbene, da quel giorno ogni volta che il mio sguardo si posava su un oggetto subito nel mio cervello si formava la parola corrispondente, la quale s’imponeva a tal punto sull’oggetto che l’oggetto non m’interessava più. Come per Mida tutto ciò che toccava si trasformava in oro, così per me tutto ciò che vedevo si trasformava in parola. La parola mi succhiava tutto, come avrei letto molti anni più tardi in Vicolo Cannery di John Steinbeck, che in un capitolo diceva la parola è un simbolo che succhia uomini e cose, sicché la Cosa diventa la Parola e poi ritorna ad essere la Cosa”.

“Ho già capito dove vuoi arrivare”.

Lo so, ma prima fammi concludere il discorso. La più grande scoperta la feci quando frequentavo la prima media a Castellammare di Stabia dai Salesiani, alla cui scuola m’iscrisse mio padre, perché una delle mie vocazioni era quella di farmi prete e lui voleva assicurarsene. Ma frequentai solo la prima classe perché i frati mi facevano le carezze e una volta uno di loro, ridendo e scherzando, m’infilò la mano fra le cosce nude”.

“Forse perché Gesù aveva detto lasciate che i fanciulli vengano a me!”.

Tu sai che prima di tradurre dall’italiano in latino una frase o un intero brano si fa l’analisi logica, mentalmente o scritta, per individuare i complementi, le copule, i predicati verbali e così via. Allora il problema dei problemi, per tutti gli studenti, era il verbo essere, che poteva avere la funzione di copula o di predicato verbale. Se per esempio io dico “Gigi è uno stupido” in questo caso il verbo essere è una copula, mentre se dico “Gigi è in casa” è predicato verbale, perché significa si trova o sta. Ebbene, l’esempio che facevano quasi tutti gl’insegnanti era “Dio è” in cui il verbo essere vuol dire “esistere”. Ora un giorno nel tradurre dall’italiano in latino una frase in cui c’era il verbo esistere, sfogliando il vocabolario, scoprii che derivava da ex-sistere, in cui ex significa fuori e sistere mettere, o collocare, quindi mettere fuori qualcosa o uscirne fuori, come dal grembo materno”.

“E che cosa c’è di strano?”.

A furia di sentire, a scuola e dai preti, l’espressione Dio esiste”, seguita spesso da “chi non crede all’esistenza di Dio andrà all’inferno”, mi venne spontanea nella mente questa domanda: “Ma se Dio è tutto e dovunque non c’è che Lui, che è infinito, come fa ad uscire fuori? Dove va? Dove può andare?”. Diventò una questione filosofica oltre che linguistica. E quella scoperta mi spinse oltre, e arrivai alla conclusione che se Dio non esiste non esistiamo nemmeno noi perché anche se usciamo dal grembo di nostra madre restiamo sempre nel grembo di Dio. Come quando passiamo da una stanza all’altra ma restiamo sempre in casa. Poi a quindici anni, a Firenze (dove frequentavo il primo liceo), dopo aver letto i presocratici, fra cui Gorgia, che diceva “nulla esiste”, ed Eraclito che diceva “nulla si crea e nulla si distrugge” quando cominciai a leggere la Genesi, il primo libro della Bibbia, scoprii che nella sua stesura originaria l’inizio non era “Dio creò”, ma “Dio formò”, o diede forma, che nella lingua ebraica è barà, e che Mosè non diceva “dal nulla”, che è un’aggiunta della Chiesa, perché per lei creare significa trarre dal nulla, quando il nulla non esiste, tanto più perché creare vuol dire dare forma a qualche cosa che c’è già, come un concetto, un’idea, una poesia, un progetto, qual era appunto la Creazione. Per me, a parte tutti gli errori e le contraddizioni che nel corso degli anni ho trovato nella Bibbia, quello fu, ed è tuttora, il primo tradimento della Chiesa, un torto fatto a Dio, che non aveva bisogno del nulla e di nulla in quanto era già tutto e dovunque non c’era che Lui: un’essenza invisibile, come l’energia, di cui abbiamo già parlato altrove”.

“Già. Dio non è mica un panettiere, che deve prendere la farina per fare il pane. Non è dunque un Creatore, nel senso che comunemente s’intende, e come diceva San Francesco nel suo Cantico delle Creature: figli si nasce, mentre Dio aveva già tutta l’umanità e tutti gli altri esseri dentro di sé ab aeterno. Ha reso manifesto, ha materializzato, rendendolo chiaro, distinto e dinamico, ciò che nella sua essenza era statico ed invisibile”.

“Esatto. Quelli che noi chiamiamo “opposti” sono il prodotto o il risultato della dialettica, che Dio realizza, mettendola in atto, nella sua veste umana, ed è questa la sua vera creazione, che in realtà è una trasformazione, sicché si può dire che Dio, pur incarnandosi in miliardi di miliardi di miliardi di persone, è un solo uomo che va dialogando con se stesso, usando, a seconda dei tempi, che sono in evoluzione, la sua parola, per cui al tempo di Mosè ha parlato e si è rivelato in un modo, al tempo di Cristo in un altro, e oggi parla per mezzo dei cellulari e del Coronavirus”.

“Ora capisco perché quando hai cominciato a collaborare ai programmi radiofonici della Rai, e in particolare della “Radio per le scuole”, hai ideato una rubrica intitolata La parola alla Parola! Tu sei stato il primo, e sei rimasto l’unico a presentare le parole come dei personaggi facendo raccontare a loro le proprie origini e la propria storia. Sono state le tue prime interviste immaginarie.

Quel programma andò avanti per otto anni, e scrissi centinaia di sceneggiati, sino a quando “La Radio per le scuole” chiuse i battenti. Allora Luciano Rispoli (collaboravo anche ai programmi leggeri della radio), passato alla televisione, dalla mia La parola alla Parola! trasse Parola mia, vantandosi, anche sui giornali (parole testuali), di essere stato “il primo a coniugare la cultura col divertimento”, quando quel suo programma era un plagio palese, anche se non si trattava di sceneggiati. Gli telefonai, e lui mi rispose: “Ma è tutta un’altra cosa”. A quell’epoca i plagi alla Rai erano molto frequenti, come del resto anche oggi, palesi o camuffati. Pure Giovanni Gigliozzi plagiò una mia proposta, sui Caffè storici italiani: “Buona – mi disse – appena possibile la manderemo in onda”. Ebbene, un giorno accesi la radio e subito una presentatrice esclamò: “In diretta dal Caffè Greco, di Giovanni Gigliozzi”. Ma torniamo a Rispoli. Dopo Parola mia “ideò” il Campionato della lingua italiana, che era stata una mia proposta, tipo quiz: una rubrica in cui due studenti facevano l’analisi logica di alcune frasi. Per esempio, uno chiedeva all’altro: “Sono andato da mio padre. Da mio padre che complemento è?”. A quel punto protestai energicamente, inviando una lettera a Giovanni Minoli e poco tempo dopo quella trasmissione fu soppressa. Poi venne il maestro Alberto Manzi e qualche anno fa scoprii per caso alla televisione un programma che parlava delle parole. Ma io sono stato il primo in questo campo, allora il mio nome correva sui giornali, sulle riviste della Rai, Sintonia e La Radio per le scuole e sul Radiocorriere, ma oggi tutto questo chi lo sa?”.

“La tua mente è una fucina di idee, di pensieri, di citazioni. Lo scoprii già quando ero bambino e abitavo coi nonni sul tuo stesso pianerottolo, porta a porta”.

Nella scuola ideai uno sposalizio fra la poesia e la musica, cioè mentre recitavo, per esempio, il Canto notturno di Giacomo Leopardi il mio registratore portatile, che molte volte mi portavo appresso e col quale ho registrato anche alcune mie lezioni, diffondeva un notturno di Fryderik Chopin. E così via. Per questo un giorno la Rai, a mia insaputa, mandò nella mia classe una troupe, guidata da Pippo Baudo e Oreste Lionello, che m’intervistò e riprese per la televisione una di quelle mie insolite e uniche lezioni. Era La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio accompagnata da I pini di Roma di Ottorino Respighi. Ma il non plus ultra fu la preghiera alla Vergine di Dante accompagnata dall’Ave Maria di Franz Schubert”.

“Con questo tuo curriculum nel 1994 fosti chiamato a far parte del Comitato ministeriale per la difesa della lingua italiana, quando salì al governo Silvio Berlusconi”.

Anche qui successe un fatto che non ti ho mai raccontato e che non sa nessuno. Insieme a me c’erano Tullio De Mauro, il noto linguista (che intervenne ad un’altra mia rubrica, Incontri e scontri fra le parole, e di cui ero già amico) e Giovanni Nencioni, che allora era presidente dell’Accademia della Crusca. Ebbene, alla prima seduta entrambi protestarono “qui non c’è niente da difendere”’, esclamò De Mauro. Alla fine, fui io a trovare la soluzione e al posto di difesa proposi salvaguardia, così il Comitato divenne il Comitato per la salvaguardia della lingua Italiana”.

“Io non sono vissuto nel Ventennio, però so che il Fascismo ha fatto molto per la lingua italiana, la quale si diffuse in tutto il mondo, che accolse i nostri libri nelle librerie e nelle biblioteche, in cui prima di allora non ce n’era alcuno, e anche altrove, oltre agli Istituti di Cultura all’estero, nacque la Mostra del libro. Perché queste cose non si possono dire? Non sono, comunque, una verità?”.

Ebbene, quando cadde, temporaneamente, il Governo Berlusconi la sinistra abolì quel Comitato, perché la destra aveva osato mettere il naso anche nella lingua. E la Rai, che per un trentennio si era nutrita della mia collaborazione, mi mise elegantemente alla porta perché m’ero rifiutato d’iscrivermi al Partito Socialista. Sono episodi personali, ma bisogna che almeno una parte degli italiani certe cose le sappiano, invece di sentir gridare in faccia alla nipote di Benito Mussolini che lo scempio di piazzale Loreto fu comprensibile, quando persino illustri antifascisti, fra cui Ferruccio Parri, lo definirono “una operazione di bassa macelleria messicana, che disonorava la Resistenza”. Ma l’accademico Andrea Romano certe cose non le sa. Come non sa, e con lui tanti suoi colleghi, che la Storia va vista e giudicata nell’insieme, non estrapolandone i fatti e i misfatti che fanno comodo a proprio uso e consumo”.

 

 

Essere, o non essere? Ma essere

come copula o come predicato

verbale, ossia nel senso di trovarsi,

di esistere, di vivere, di stare?

 

È questo il gran problema! Per Parmenide

l’essere “è”, il non essere “non è”,

invece per Platone anche il non essere,

così diceva, “è” mentre Aristotele si limitava a dire

“i modi d’essere sono tanti e diversi”. Tutto qui.

 

Gorgia, tagliando corto: “Nulla esiste!”,

esclamava, creando il nichilismo.

Ma come mai può esistere s’è Nulla?

Doveva dir: “Non c’è cosa ch’esista”.

 

Ma l’esistenza che cos’è? Qual è

precisamente il suo significato?

Essa deriva dal latino ex-sistere,

che vuol dire ‘andar fuori’, riferito

soprattutto alla nascita, nel senso

di uscire fuori dal grembo materno.

 

A questo punto sorge la domanda:

“Ma che cos’è la vita? Un uscir fuori

da un grembo piccolino per entrare

in un grembo più grande, anzi, infinito.

 

“Esistere”, perciò, con “esistenza”,

va cancellato dal vocabolario,

anche perché con il Coronavirus

uscir di casa è come una follia.


di Mario Scaffidi Abbate e Renato Siniscalchi