Opinioni a confronto: nulla si crea e nulla si distrugge

“Innanzitutto la ringrazio per la bella e dotta lettera che mi ha inviato dopo la nostra conversazione telefonica, intestandola con i versi di Lucrezio Nec me animi fallit Graiorum obscura reperta difficile inlustrare Latinis versibus esse (Io lo so bene quanto sia difficile / tradurre in versi nella nostra lingua / certe scoperte equivoche dei Greci). Quei versi che si riferiscono praticamente alla parola, che, parafrasando Dante, spesso non si accorda all’intenzione del traduttore “perché a risponder la materia è sorda”, ha richiamato nella mia mente ciò che io ho sempre pensato della parola, fin da quando, ancora bambino, se mi si chiedeva qualche cosa che non sapevo, invece di rispondere “Non lo so”, rispondevo “Sonnolò”, d’istinto, senza nemmeno pensarci sopra. E lo facevo con tante altre parole, quando ancora non sapevo cosa fosse l’anagramma. Finché più tardi scoprii che il Diavolo era Dio che volava, perché, anagrammato, mi dava “Dio vola”, e che il Demonio era un Dio dimezzato, in quanto diventava meno Dio”.

“Lei era un bambino molto precoce e ingegnoso: lo si deduce dai suoi versi. Mi dispiace di non poterla conoscere di persona, perché abito nel Ferrarese, a Portomaggiore. La sua versione delle Metamorfosi di Ovidio mi accompagna, da insegnante di scuola elementare quale sono, in ogni classe quinta che affronto, in cui nel percorso di storia, trattandosi di Greci e di Romani, i Suoi versi risuonano cristallini, dolci e chiarissimi ai bambini. Questo racconto ineguagliabile, reso ancora più appetibile dall’estrema scorrevolezza della Sua versione, ammalia i bambini, non soltanto i miei alunni, li fa letteralmente sognare. Nell’opera e nella narrazione di queste infinite metamorfosi, in fondo i piccoli ritrovano loro stessi nel perpetuo e inafferrabile cambiamento che è proprio del passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza, come poi di ogni altro cambiamento che la vita riserva. Tutto per conservarsi cambia e muta, come bene c’insegna Lucrezio. “Nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma, panta rei, tutto scorre”, come diceva Eraclito”.

La vita, come tutta la Creazione”, è una metamorfosi, una trasformazione, e ancora lo è il corpo dopo la morte, quando l’anima, stanca d’ogni sforzo, abbandona la sua buccia nella spazzatura dei cimiteri. Tutti gli esseri si trasformano: la farfalla all’origine è un bruco che alla fine si libera dal bozzolo mediante le zampe e le mandibole che nel frattempo si sono sviluppate; dalle uova di rana escono le larve che crescendo diventano girini, ai quali dopo qualche tempo crescono la coda e le zampe, che gli consentono di vivere sott’acqua, finché non scompaiono la coda e le branchie e la rana diventa adulta; il camaleonte modifica il colore della propria pelle a seconda degli stimoli esterni. E così via. Giovanni Papini nella Vita di nessuno offre un quadro molto efficace e suggestivo della metamorfosi subìta dal feto umano nel corso della gestazione: “Si comincia come pesci immobili e senza pinne; si devia un momento verso i rettili; spuntano gli arti; poi appare come una specie d’agnello prematuro e sanguigno, come una larva di mammifero indistinto. Il capo è enorme; gli occhi spaventosamente grandi e ciechi; le braccia e le gambe stanno raggrinchiate attorno alla persona; le branchie sono già orecchi e nel mezzo del ventre un viscido cordone porta il quotidiano tributo alla fame dell’immobile ospite. Ed ecco che appare e traluce timidamente la forma umana. Il muso si fa viso; le zampe diventano piedi; il pelo si dirada e il piccolo cuore si adagia tra il molle ricovero dei polmoni. In quei nove mesi l’anima è veramente la creatrice del corpo. La sua volontà aggrega gli elementi, li unisce e li separa; fabbrica le membra, le modifica, le purifica, le nobilita e con l’ultimo sforzo tremendo della sua fuga dal primitivo e dall’animale tende all'uomo, al corpo bianco ed eretto che più di ogni altro è fatto a immagine e somiglianza di Dio”. Le ultime parole, “a somiglianza di Dio”, come tutto il contesto, mi riportano sempre, inevitabilmente, al racconto di Mosè che sulla nascita dell’uomo se la cava dicendo che Dio lo trasse dalla polvere (a Sua immagine!), quando Ovidio, ma anche altri poeti, descrive quell’evento dettagliatamente: “Nacque pertanto l’uomo, sprigionato da un qualche seme del divino artefice, causa e principio di un mondo migliore, o che il figlio di Giàpeto, il versatile ed astuto Prometeo, plasmò a somiglianza degli dèi che reggono tutte le cose, impastando la terra ancora intrisa d’acqua, che, staccata dalla volta celeste, conservava qualche germe del cielo, insieme al quale s’era formata. E se gli altri animali marciano proni con lo sguardo a terra, all’uomo invece fu concesso un viso levato verso l’alto, che potesse guardare il cielo e contemplar le stelle”.

“Nessun essere animato è mai identico a se stesso, ma, come il sole di Orazio, è alius et idem, uguale e diverso nel medesimo tempo: ciò che gli dà il senso dell’identità e dell’unità è la coscienza, o l’anima. Dunque le Metamorfosi di Ovidio, come quelle di altri poeti e scrittori (quali Apuleio, Nicandro di Colofone, Franz Kafka, sino ai creatori di personaggi come l’uomo ragno o il rospo in cui si cela il principe azzurro), hanno le loro radici nella natura stessa. È da lì che nasce il mito, e poiché il mito è la “parola” (passata poi a significare anche “discorso” o “racconto”), possiamo dire, come Lei ha scritto nell’Introduzione alle Metamorfosi, che “In principio era il Mito, e il Mito era presso Dio e il Mito era Dio, e tutto è stato fatto per mezzo del Mito”. Per Gianbattista Vico la storia dell’uomo è la storia di Dio, la Provvidenza, considerata la legge dalla quale la storia riceve la sua direzione e il suo ordine. Secondo Vico non può esservi alcun mondo storico fondato sull’ateismo poiché tutte le civiltà, le leggi e le istituzioni che hanno caratterizzato in tutti i periodi storici il mondo degli uomini si fondavano su qualche forma di religione, vera o falsa, cristiana o pagana. Anche gli uomini primitivi secondo Vico non erano privi di senso religioso”.

Stando ai testi sacri di altre religioni, quali il Sefer Yetzirah ebraico e le Upanishad indiane, Dio non creò dal nulla, come dice la Chiesa, innanzitutto perché l’originale ebraico della Genesi non dice Dio creò, dice barà, che significa formare, o dare forma, verbi che Mosè usa anche successivamente, e poi se Dio è tutto ed infinito il nulla dove sta? Quel “dal nulla” aggiunto dalla Chiesa dimezza Dio, per non dire che l’offende: “Dio trasse l’universo dalla sua essenza stessa, dal suo grembo infinito, che è l’energia nel suo stato sottile ed invisibile, manipolando i suoni o le vibrazioni sonore, cioè le lettere alfabetiche, in una tale quantità di combinazioni ‘che la bocca non può dire e l’orecchio non può udire”. La parola dunque crea. “Nulla esiste dove non esiste la parola”, diceva Stefan George, e Martin Heidegger si domandava: “Che cos’è la parola per avere tale potere?”. Tutta la magia cerimoniale è basata sul potere della parola. I Dogon, una popolazione dell’Africa occidentale, definiscono la parola “l’energia vibrante della cosa pronunciata”. “La parola divina è come il fuoco”, dice Geremia, e come fuoco appare Dio a Mosè sul monte Sinai. Che c’è di strano, dunque, se Giove si trasforma in aquila, in un torello candido e lascivo o in polvere d’oro? Ora, se la Parola è Dio, come dice il Vangelo di Giovanni, e tutto nasce dalla Parola, e perciò Papa Luciani ha detto “Dio è papà, ma più ancora è madre”, allora è Dio stesso che si trasforma, all’interno del suo grembo, che non ha fine, e l’universo, più che una creazione, è una metamorfosi, teofania in movimento, che assume forme diverse e innumerevoli. Teilhard De Chardin, un grande teologo, è stato il primo a parlare di “Creazione continua”, e per questo fu scomunicato dalla Chiesa. Chissà quanto se la ride da lassù ora che la tecnologia ha dimostrato “scientificamente”, come hanno dichiarato due pensatori indiani, che i computer, i cellulari, i tablet e Internet sono l’aspetto tecnologico, informatico o telematico di Dio, il che significa che Dio continua a parlare utilizzando altri modi, com’è accaduto, per fare un solo esempio, con l’alfabeto Morse. Quei pensatori indiani hanno ringraziato Dio, ma da noi nemmeno il Papa”.

“Sotto un certo aspetto gli antichi, nella loro visione pagana, politeistica e antropomorfica della divinità, erano più coerenti di noi. Le loro credenze non erano campate in aria: il vento, il tuono, il fragore del mare sono davvero la voce di Dio, il sole è la sua luce, il fuoco è il suo calore. Io trovo che il tetrafarmaco di Epicuro, reso biondo miele da Lucrezio nei suoi esametri latini, sia un balsamo anche per il nostro tempo: limitare i desideri, accontentarsi del poco, godere di quanto offre il presente, coltivare l’amicizia, non temere malattia o morte, non ambire a cariche politiche od onori. Anche nel frangente di questa pandemia, le parole di Lucrezio mi sono state di grande conforto. È poi anche la lezione che, tra i primi, Orazio ha imparato assai bene come si evince dal bellissimo volume delle sue opere da lei curato e ristampato anche da Mondadori”.

Epicuro attribuiva alla filosofia la funzione di un farmaco capace di guarire quattro malattie: il timore degli dèi, la paura della morte, il dolore e il dispiacere. Per questo lo chiamava tetraphármakos. Ma l’effetto di questa medicina, per lui come per gli altri saggi, era l’imperturbabilità, cioè un atteggiamento di distacco dal mondo, non però a priori, cioè a vent’anni, o giù di lì: siamo venuti al mondo per farne esperienza, che senso avrebbe isolarci subito, ritirarci in un convento, sul Tibet o in un’isola deserta, come dicevano i contestatori sessantottini? A che pro? Per essere liberi? Per essere noi stessi? Cosa significa essere se stessi? Non è nell’isolamento che possiamo trovare ‘”il nostro sé”. La vera libertà è una conquista, e non si merita se non dopo una lunga costrizione di prigionia, come diceva Papini, dove per prigionia s’intende il vivere in mezzo alla gente, in mezzo al traffico, in mezzo a tutte le costrizioni, le limitazioni e le sovrastrutture che la società civile c’impone, ma per liberarcene, dopo averle vissute, assimilate e fatte nostre. Quello è il nostro sé, non l’individuo chiuso come in un bozzolo, “monade senza finestre”, ma l’umanità, che dobbiamo assorbire e sentire dentro di noi. Benedetto Croce attribuiva il giudizio positivo o negativo che diamo della realtà a un moto passionale, causato da buono o da cattivo umore. Di tutto, diceva, si può parlar bene o male, tranne che della realtà e della vita, la quale crea essa e adopera ai suoi fini le categorie del bene e del male, per cui il nostro giudizio, positivo o negativo che sia, non ha senso”.

“Uno dei primi ingredienti per vivere sereni e in armonia con la natura è l’ottimismo, cioè quella “filosofia” che ponendo a fondamento della realtà un principio razionale giunge alla conclusione che tutto ciò che esiste, per il fatto che esiste, è un bene, compreso il male, nel senso che il male è bene che ci sia, come è bene che ci siano il cattivo tempo per poter godere del bel tempo, il dolore per poter godere del piacere, e così via. Gottfried Wilhelm von Leibniz, a cui risale il termine “ottimismo”, diceva che il nostro “il migliore dei mondi possibili”, in quanto Dio, Essere buono e perfetto, trasse dalle infinite possibili combinazioni di perfezioni quella “ottima”, che esprime la realtà più ricca possibile. Quando diciamo “prendere la vita con filosofia” diamo per scontata una verità, che cioè il filosofo, il vero filosofo, è una persona che si mantiene serena anche di fronte alle più grandi sventure: “Cascasse il mondo, io resto insensibile di fronte a tanta rovina”, diceva Orazio. Cesare Cantù definisce Ovidio “l’autore più piano alla intelligenza per naturalezza d’idee, per netta espressione, per lo splendore che getta su tutti i pensieri e sulla dicitura”. Gli rimprovera però la scarsa diligenza della lima, un difetto che del resto Ovidio stesso confessa in un passo delle Epistulae ex Ponto, spesso, benché lo desideri, rinuncio a mutare un vocabolo, quando allo scarso vigore cede la mia volontà. M’urta il correggere, il peso d’una stancante fatica”.

Luigi Alfonsi, in Letteratura latina, pubblicato da Sansoni nel 1960, ha scritto: “Questo poeta di facile vena e di morbido sentimento, di tenerezze e di sogni, non digiuno di filosofia, aperto alla comprensione umana, espresse bisogni spirituali di rinnovamento, in nome delle esigenze dell’anima, che fermentavano in un’età che si iniziava pervasa di istanze religiose. Artefice perfetto del verso, seguace di un illuminato purismo nella scelta della parola, è stato uno dei tramiti più ricchi per cui l'antichità è passata nel mondo moderno, una delle glorie più alte della letteratura romana”. Molto avremmo ancora da dire, ma dobbiamo concludere. Quello che fa Lei nella scuola con i suoi “bambini” è ammirevole e sorprendente. Mi fa tanta tenerezza il solo pensarlo. L’opera di un maestro delle elementari (lo sono stato anch’io, come supplente, prima di laurearmi, quando ero istitutore al Convitto Nazionale di Lovere) vale molto di più di quella di un “professore” (e di una “professoressa”), specialmente oggi, perché getta le fondamenta per la formazione del carattere di una persona, il quale non dipende solo dal clima, come diceva Montesquieu. I maestri sono degli “educatori”, a tutto campo, e sanno che agli “educandi”, come diceva Giovanni Gentile, si deve magna reverentia. La ringrazio per la sua collaborazione e per il suo contributo alla conoscenza della cultura classica”.

 

Un’ode di Saffo

 

A me pare uguale agli dèi

chi a te vicino così dolce

suono ascolta mentre tu parli

e ridi amorosamente.

Subito a me

il cuore si agita nel petto

solo che appena ti veda, e la voce

si perde nella lingua inerte.

Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,

e ho buio negli occhi e il romb 

del sangue nelle orecchie.

E tutta in sudore e tremante

come erba patita scoloro:

e morte non pare lontan 

a me rapita di mente.

(Salvatore Quasimodo)

Quasi mi sembra simile ad un dio

quell’uomo che di fronte a te si pone

e come intanto tu soavemente

parli t’ascolta

mentre ridi amorosa.

Al che nel petto

subito il cuor mi balza in un sussulto:

per poco infatti ch’io ti veda, niente

m’esce di voce,

ché la lingua si spezza ed un sottile

fuoco serpeggia sotto la mia pelle;

nulla più non distinguono i miei occhi,

romban gli orecchi,

scorre sopra il mio corpo un sudor freddo,

tutta un tremito sono e più dell’erba

pallida, sì che poco lungi ormai

sembro da morte.

Aggiornato il 20 gennaio 2021 alle ore 12:06