“Siamo vissuti celebri non nelle scuole dei grammatici, non là dove si insegna ai ragazzi, ma nelle accolte dei filosofi e nei circoli dei sapienti, dove non si tratta né si discute sulla madre di Andromaca, sui figli di Niobe e su fatuità del genere, ma sui principî delle cose umane e divine” (Pico della Mirandola).

Questa mattina, entrato nel mio studio, sono andato a rovistare fra le mie vecchie carte (scritti a mano o a macchina non trasferibili sul computer) e mi è capitata fra le mani una delle tante interviste immaginarie da me ideate e sceneggiate per i programmi radiofonici della Rai (prima fra tutte La parola alla Parola!), dedicata a Pico della Mirandola, un personaggio che ho citato e descritto in un mio romanzo su Michelangelo, Il mistero del Cristo senza croce, e mi è venuta l’idea di utilizzarla, ritoccandola qua e là, sia perché quella di Pico non è solo l’epoca del Rinascimento, è anche quella di Lorenzo il Magnifico (al quale pure dedicai uno sceneggiato in una rubrica intitolata Al tempo di…), sia perché il pensiero di Pico è incentrato sull’uomo, ben diverso da quello di oggi, specialmente nel mondo della Politica, in cui gli eletti (nel senso di votati dal popolo) si “scannano” fra loro, sia perché sarebbe “lodevol cosa” mettere a confronto l’uomo di allora con quello attuale, invitando gl’Italiani a ricordarsi e a riappropriarsi della “dignità e divinità dell’uomo”, oggi tanto degenerato.

“Ho preso dunque quelle vecchie pagine e sono andato a sedermi, mezzo sdraiato, sulla mia vecchia poltrona reclinabile, la prima in assoluto, che mi fu regalata dai genitori di un mio alunno comproprietari della famosa ditta Malatesta e Masson, sicché spesso quando mi “accomodo” su di lei mi sento idealmente fra le braccia di tutti i miei discepoli del bel tempo che fu. All’età di 95 anni di che cosa può vivere un uomo se non dei ricordi più cari? Così passo le mie giornate, fra il computer e la poltrona, e, per dirla con Niccolò Machiavelli, “in sull’uscio del mio scrittoio mi spoglio di quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno a parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento alcuna noia, sdimentico ogni affanno e tutto mi transferisco in loro”.

“Il tuo primo nome”, ho esordito non appena il suo volto sereno e accattivante si è infilato nei miei pensieri, “era Giovanni. Pico da dove viene?”.

“Dal latino picus, il picchio, un uccello molto ammirato e rispettato nell’antichità, presente nella mitologia latina e greca e in tante leggende, che molti popoli consideravano un animale sacro: Plutarco lo attribuiva a Marte, i Piceni erano ‘quelli del picchio’, e per Ovidio era un uomo affascinante di nome Pico, re dell’Ausonia e fondatore di Albalonga”.

“Tu sei stato uno degl’ingegni più brillanti d’Europa: conoscevi ben ventidue lingue, possedevi una memoria prodigiosa ed eri capace di dettare contemporaneamente più lettere, anche in lingue diverse. Una delle tue regole era che bisogna interessarsi più ai contenuti delle opere che non alle sottigliezze retoriche e logiche”.

“Quel che importa è la res, la cosa, la sostanza. Il sapere ha da accompagnarsi all’eloquenza. La sapienza poco eloquente può giovare, ma l’eloquenza stolta è come la spada nelle mani di un pazzo”.

“Tu eri uno degli ospiti più illustri della corte di Lorenzo il Magnifico, affiancato dal Poliziano e da Marsilio Ficino, avevi una cultura enciclopedica, basata sullo studio della lingua ebraica, araba e caldaica, oltre che del latino e del greco”.

“Fu appunto da lì che cercai di promuovere un riavvicinamento tra le religioni cattolica, ebraica e islamica, un sogno condiviso da Marsilio Ficino quello di una unificazione delle tre religioni monoteiste – il Cristianesimo, l’Ebraismo e l’Islamismo – in una religione universale, alla quale l’umanità un giorno potrà pervenire, poiché la ragione di questo è intrinseca nei fatti stessi”.

“Tu hai scritto novecento tesi che accesero una disputa sulle radici unitarie del sapere umano e sulle pratiche adatte a sviluppare questo sapere nella prospettiva di una pace fra tutti i popoli. Alcuni le definivano pratiche che attenevano alla magia”.

“Operare magicamente altro non è che sposare fra loro gli elementi del mondo. Oggi posso dire che ciò allora era contrario agli insegnamenti della Chiesa. Papa Innocenzo contestò e condannò tante delle mie affermazioni”.

“Molti letterati al tuo tempo, come il Magnifico, si compiacevano di scrivere versi in volgare, che era la lingua del popolo, mentre altri ritenevano che il volgare non fosse una lingua degna, e perciò continuarono a scrivere in latino. E chiamavano insensati quegli scrittori che nelle loro opere si servivano del linguaggio del popolo. Per alcuni l’uso del volgare era come una seconda distruzione di Roma”.

“Io non ero d’accordo. Non mi pareva affatto che essendo usata da tutti perdesse di dignità, al contrario: vera lode della lingua è sempre stata l’essere copiosa e abbondante, e atta ad esprimere bene il senso e il concetto della mente. Per me non era questione di usare il latino o il volgare, quanto di dire cose vere. Del resto, come dimostrò il Magnifico, si poteva ben scrivere in latino e contemporaneamente in volgare, come fecero Dante e Leon Battista Alberti, il quale, tuttavia, al pari di Dante, prediligeva il volgare”.

“Alberti era un uomo universale: letterato, architetto, matematico, archeologo, s’intendeva di pittura e di scultura. Era il primo in tutte le discipline, persino nella ginnastica, e a questo proposito ho letto che saltando a piedi pari scavalcava le persone e che un giorno nel Duomo gettò una moneta tanto in alto che ne toccò la vòlta. In ogni produzione dell'ingegno umano, purché si uniformasse alle leggi del bello, riconosceva qualcosa di divino”.

“All’interno dell’umanità ruotano innumerevoli comunità a immagine dell’universo, che per dirla con Dante “si muovono a diversi porti per lo gran mar dell’essere, ciascuna con istinto a lei dato che là porti”, sicché nel loro insieme i letterati, i filosofi, i musicisti, gli scienziati sono strettamente collegati fra loro. È una legge della natura, che si servì di me, come di altri, e come in precedenza s’era servita di Platone, di Fidia, per fare due soli esempi, come di un fulcro intorno a cui si muove, per l’appunto, il piccolo universo dei letterati, dei poeti e degli artisti che rispetta il moto degli astri”.

“E dove sta la prova?”.

“La prova sta nel fatto che quando ammiriamo l’opera di un artista vi veniamo trascinati dentro e assorbiti come se fra noi e l’opera si stabilisse un contatto, come se fossimo per così dire i vertici di ipotetiche forme geometriche che ci uniscono col tutto. Tutto è unito in un’unica manifestazione, che procede dall’imperscrutabile mistero dell’Uno, il quale s’irradia come una melodia. ‘Diverse voci fanno dolci note’, diceva Dante, e io, parafrasando, aggiungo: ‘così diversi artisti in questa vita rendono l’armonia dell’alte rote’. E nella melodia artistica e letteraria ecco Giuliano da Sangallo, Botticelli e Ficino, per non parlare degli altri che tutti quanti insieme hanno dato un impulso culturale al progresso dell’umanità”.

“Possiamo dire che la schiera dei letterati e degli artisti di allora era la più bella costellazione del mondo”.

 “Bravo! L’arte è come una stella polare, a cui l’umanità ha sempre guardato come a un punto di riferimento, perché è l’arte, così come nell’ordine dell’universo, che guida l’uomo verso il suo fine, cioè Dio, da cui provengono e a cui ritornano tutte le cose. Nella pittura un dipinto si compone di due aspetti: il primo è quello estetico, poiché l’opera colpisce a prima vista per la sua armoniosità, il secondo è quello che corrisponde all’essenza dell’opera, alla veritas abscondita, che si rivela solo ad un osservatore sensibile e spiritualmente preparato. Si nasconde mimetizzandosi tra le forme del dipinto, tra i simboli, espliciti e impliciti, i volumi e le proporzioni, tra i pieni e i vuoti, gli oggetti, i colori che l’artista pone in essere per soddisfare esigenze sapienziali e attuative della ragion d’essere dell’opera: “Opus Arte factum divini velamen est”, l’Opera d’arte è velo del divino. Mentre per il primo aspetto basta osservare, per penetrare nel secondo occorre contemplare, farsi tempio con l’opera d’arte, che, essendo nata per afflato divino, è già tempio di per sé, essendo, suo modo, la dimora del sacro”.

“Quale giudizio puoi dare oggi del tempo in cui sei vissuto?”.

“Nell’età di mezzo, o medioevo, la suprema sovranità di Dio induceva gli uomini a trascurare le cose di quaggiù, e codesto è un errore, visto che la natura è stata creata per essere amata, sicché noi, vedendo un’età dominata solo dal pensiero dell’altra vita, abbiamo trovato ispirazione e forza nell’antichità classica, così ricca di esempi di opere illustri, di memorie gloriose, di grandi poeti e scrittori, che amavano appunto la natura, nella quale è presente e opera Dio, dacché Dio non è “staccato” dalla sua creazione, come sostiene la Chiesa cattolica. Nell’uomo spira il soffio divino, non c’è contrasto fra l’uomo e Dio”.

“Il tuo Discorso sulla dignità e la divinità dell’uomo è considerato il “Manifesto del Rinascimento”, in cui tu esalti l’uomo al punto da dargli il potere di conoscere e dominare tutta la realtà, nella convinzione che ogni individuo è artefice della propria esistenza. Non così la pensava Lutero, che scrisse un libro sul Servo arbitrio, in risposta al Libero arbitrio di Erasmo da Rotterdam. Secondo me l’uomo esercita e sperimenta non la sua libertà ma quella di Dio, che, essendo la Legge, è necessitato, non può violarla, se non sul piano dialettico. Non dimentichiamo che Dio è ab aeterno e Lui stesso dice “Io sono quello che sono” (non “colui”, come traducono tutti, perché nella dimensione assoluta Dio non è una persona). Quella frase di Dio, “Io sono quello che sono”, secondo me sottintende “non posso essere altro che così”. C’è chi dice che la vita è un sogno, un’illusione, un lila, cioè un gioco, come dicono gl’Indiani. Secondo me la vita dell’uomo è sì un gioco di Dio, ma dialettico e dinamico: Dio è la Parola, l’universo è nato da lì, non dal nulla, come sostiene la Chiesa cattolica, ma come sostengono Giovanni nell’esordio del suo Vangelo e i testi sacri di altre religioni, quali il Sefer Yesirah ebraico e le Upanishad indiane. L’uomo arriva alla fede proprio perché ha sperimentato la disperazione e la sfiducia (desperatio fiducialis la chiamava Lutero, il quale era ostile alle opere perché danno all’uomo l’illusione di potere giungere con le proprie forze alla salvezza). Tutto il processo della desperatio è progettato e applicato da Dio che porta l'uomo dalla desperatio alla fede. Io l’ho sperimentato fin da bambino quando i preti con le loro chiacchiere invece di avvicinarmi a Dio mi allontanavano da Lui. E mi chiedevo: ‘Perché Dio dà la fede solo ad alcuni e non a me?’. L’amavo a tal punto che se non fosse esistito avrei dato la mia vita purché vivesse Lui”.

“Noi non possiamo permetterci di giudicare Dio, anche se punisce apparentemente senza motivo, ma dobbiamo approvare tutto ciò che fa, persuadendoci del fatto che tutto ciò che Dio fa è inevitabilmente buono. Ne consegue che il libero arbitrio non è libero, ma prigioniero e schiavo del male, dato che non può senza l’intervento di Dio, volgersi verso il bene. Se poi la Scrittura, come sostiene Erasmo, è oscura, allora, dice Lutero, è impossibile trovarvi una definizione precisa del libero arbitrio. Il fatto che l’uomo dica “se voglio”, “se faccio”, “se intendo” e così via, non dimostra, non prova l’esistenza del libero arbitrio: l’uomo, essendo destinato ad agire, per forza deve credere di essere lui l’artefice di ciò che fa, diversamente non muoverebbe un dito e la sua evoluzione andrebbe a farsi benedire. Dunque, solo Dio possiede il libero arbitrio, perché solo Lui “può e fa”, e quindi solo attraverso Dio l’uomo può fare qualcosa: se attribuiamo all’uomo una qualche capacità d’azione viene meno il fondamento della salvezza in Cristo. Se Cristo ha redento gli uomini con il suo sangue, dobbiamo credere che l’uomo era completamente perduto e incapace di salvarsi, altrimenti renderemmo Cristo superfluo! Se c’è grazia, non può esserci libero arbitrio. Perché predicare il Vangelo se l’uomo è impotente a rispondere non avendo libero arbitrio? Perché invitare il peccatore di venire a Cristo se il peccato lo rende tanto schiavo da impedirgli di rispondere? La risposta è che noi non predichiamo il Vangelo perché crediamo che gli uomini siano liberi agenti morali e quindi capaci di ricevere Cristo, ma lo predichiamo perché Cristo ci comanda di farlo”.

“Nel De hominis dignitate tu dici che Dio aveva foggiato secondo le leggi di un’arcana sapienza la dimora del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della divinità. Che aveva abbellito con le intelligenze la zona iperurania, aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi, aveva popolato di una turba di animali d’ogni specie le parti vili e turpi del mondo inferiore. Sennonché, portato a compimento il suo lavoro, desiderò che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera così grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Tu avevi anche un grande interesse per la cabala considerata come una fonte di sapienza a cui attingere per decifrare il mistero del mondo, e nella quale Dio appare oscuro, in quanto apparentemente irraggiungibile dalla ragione”.

“Non esiste una scienza che possa attestare meglio la divinità di Cristo che la magia e la cabala”.

“Tu collegavi alla sapienza cabalistica la magia, sostenendo che il mago opera attraverso simboli e metafore di una realtà assoluta che è oltre il visibile, e dunque, partendo dalla natura, può giungere a conoscere tale sfera invisibile attraverso la conoscenza della struttura matematica che è il fondamento simbolico-metaforico della natura stessa. Diverso era il tuo atteggiamento nei confronti dell’astrologia. Per quale motivo?”.

“Perché a differenza dell’astronomia che ci consente di conoscere la realtà armonica dell’universo, e dunque è giusta, l’astrologia crede di poter sottomettere l’avvenire degli uomini alle congiunture astrali, e ciò costituirebbe una negazione proprio della dignità e della libertà umane. La scienza astrologica attribuisce erroneamente ai corpi celesti il potere di influire sulle vicende umane (fisiche e spirituali), sottraendo tale potere alla Provvidenza divina e togliendo agli uomini la libertà di scegliere. Io non nego che possa esservi un certo influsso, ma bisogna stare attenti a non subordinare il superiore (cioè l’uomo) all'inferiore (ossia la forza astrale). Anche Marsilio Ficino studiava i rapporti fra gli oggetti sensibili e gl’influssi astrali, e dedicò al Magnifico una sua pregevole opera sulla vita, in cui è enunciata la cosiddetta teoria del talismano, secondo cui qualsiasi oggetto materiale, quando venga messo in rapporto con le cose superiori, è colpito immediatamente da un influsso celeste”.

“Ma veniamo al tempo di oggi, in cui pure molti si aspettano un nuovo rinascimento, che a mio giudizio è già iniziato e di cui la maggior parte degli uomini, compresa la Chiesa, non si sono accorti. Due filosofi indiani hanno definito i prodotti della tecnologia odierna “l’aspetto tecnologico di Dio”, e l’hanno ringraziato. Da noi neppure il papa gli ha detto grazie, almeno pubblicamente, e tuttavia anche lui si porta in tasca il cellulare, ma come la maggior parte degli uomini, non sa che il cellulare, come il computer e altri accessori, sono anch’essi Parola di Dio. Il quale negli uomini, con gli uomini e per mezzo degli uomini, come diceva Agostino della preghiera, nell’èra primitiva parlava coi gesti delle mani e con la voce che allora altro non era che un insieme di suoni spesso incomprensibili. Poi vennero i disegni, le sculture e quei suoni, che erano praticamente le vocali e le consonanti di tutte le lingue che sarebbero nate, hanno dato origine all’alfabeto: da lì siamo arrivati al computer e ai cellulari. Se, come dicevano sul piano naturale Linneo e su quello filosofico Gottfried Wilhelm von Leibniz, Natura non facit saltus, neppure Dio li fa, c’è anche in Lui, nella sua veste umana, uno sviluppo graduale sia di natura scientifica che teologica e morale. Concludendo, in questa nostra epoca tecnologica, in cui molto spesso, per non dire quotidianamente, più che l’umano prevale il ‘disumano’ qual è la natura dell’uomo che si vorrebbe ridestare? Sono passati secoli in cui dopo l’Umanesimo sono sorte nuove idee, pratiche culturali, movimenti artistici e dispute filosofiche. È una domanda che riporta pochissimi, diciamo un pugno di persone, a parlare di dignità dell’uomo, che si distingue dagli ‘altri’ animali. Chi è quel tipo d’uomo a cui dovremmo guardare, visto che, a qualsiasi latitudine e a dispetto di ogni confine, siamo fatti tutti della stessa carne?”.

“È l’uomo vitruviano, simbolo per eccellenza dell’Umanesimo, che si proponeva come fine e misura ultima di tutte le cose. Il cerchio e il quadrato devono essere letti in chiave simbolica, anche sulla base delle riletture cristiane della teoria del microcosmo: il cerchio allude alla sfera divina, il quadrato al mondo terreno. L’uomo, a metà tra divino e terrestre, è un elemento di raccordo capace di unire i due mondi. È una sorta di commistione tra Umanesimo e Cristianesimo, che, pur rifacendosi alla tradizione degli antichi, individuava comunque nell’uomo l’immagine di Dio. Questo modo di pensare è ben esemplificato dal commento che appare sotto l’uomo vitruviano, che, tradotto dal latino, significa: “Colui che niente ignora mi creò. E io reco in me ogni misura, sia quelle del cielo, sia quelle della Terra”. L’uomo che è inscritto nel cerchio e nel quadrato è dunque la creatura capace di restaurare nelle cose e negli uomini l’armonia, il senso del divino e dell’unità con Dio”.

Aggiornato il 28 gennaio 2021 alle ore 09:18