Testimonianze: ho vissuto la morte

giovedì 25 febbraio 2021


Il racconto di Antonio Saccà

Caro Antonio, la tua disavventura con il contagio del Coronavirus ricorda Dante nella selva oscura, smarrito e perso di fronte alla lupa. La malattia di Arturo Diaconale l’ho già descritta. Ora vorrei che tu mi raccontassi per sommi capi il tuo lungo calvario.

Sono stato portato all’ospedale Spallanzani ben quattro mesi fa. Il 12 ottobre dell’anno scorso ero stato ricoverato nell’ospedale Pertini, e da quella data per venti giorni ho dormito ininterrottamente, delirando. Enormi e violente masse d’acqua mi trascinavano su e giù, sbattendomi al vertice e al fondo, come un condannato per l’eternità, prigioniero della morte, delle acque e del mio corpo stesso, come un feto nel grembo della madre. Poi ad un tratto mi trovai in Québec, ai primi del Novecento, in una stanza con padelle e pentole, che fungevano da strumenti musicali. Ero come scacciato dal mondo e volevo tornarmene in Europa. Da lì passai in un luogo spietatissimo in cui mi oltraggiavano e mi derubavano, impedendomi di raggiungere un taxi. Poi, sempre in uno stato di delirio, ho sognato mia moglie, ch’era piena di rabbia contro di me, mentre il sindaco d’una città siciliana denunciava pubblicamente i miei comportamenti. In un altro terribile delirio, immerso nelle acque, giravo intorno a un masso e non riuscivo a liberarmi dalle catene che mi legavano a lui. Poi ho sognato tante processioni. I sacerdoti scendevano solennemente verso una tomba nella quale c’ero io. E ciò avveniva tante e tante volte.

Non avevo un appoggio, alcun sostegno, in quelle condizioni: ero in balìa del nulla più totale, come se non soltanto io fossi malato, ma l’intera civiltà. Un senso di annientamento così radicale che mi sentivo come fossi morto anche vivendo, perché se le cose finiscono in quel modo, anche vivendo siamo nulla. Questo annientamento mi terrorizzava, e mi terrorizza ancora: dopo che ho visto e sentito tutto ciò, è difficilissimo tornare alla vita normale. Tutto è cambiato nella mia mente, tanto che non ho più un’idea della vita normale. Tutto ciò che prendevo sul serio mi sembra così assurdo, così improprio rispetto all’annientamento. L’unica cosa da salvare è la generosità, la pietà per chi la merita, e combattere chi è malvagio. La condizione è talmente orribile che occorre aver pietà per non accrescere il male. Chi ha visto e sentito quel che ho visto e sentito io oltrepassa la realtà. Come uno che ha visto un terremoto, una guerra, un’orrenda prigionia: il mondo non è più quello di prima.

Mi sono svegliato dopo venti giorni di buio. In questo buio avevo la certezza che il mondo si rendeva conto della mia malattia e i giornali ne davano la notizia, interrompendo i programmi, come avviene nelle dichiarazioni di guerra. Fra l’altro, avevo il terrore che si perdessero tutti i miei scritti. Quando mi sono svegliato le infermiere mi dicevano che gridavo, e io andavo da un reparto all’altro e loro mi seguivano pregando. Sono stato incosciente venti giorni, ma deliravo anche s’ero sveglio. Volevo andar via da tutto e da tutti, perché mi costringevano a sentire, e non riuscivo a sottrarmi a questa condizione. Mi sono svegliato ma non avevo voce, mi legavano le mani al letto e io ne soffrivo moltissimo, a ogni minima protesta mi legavano ancora di più. Io m’illudevo di parlare a voce alta, pensando che non era bene lasciare le persone a non far niente.

Un giorno un medico mi fece non so che operazione al collo, che era aperto, ed è venuto fuori uno schiumone cremoso, incredibile come quantità, una massa che stava nel mio petto e nei polmoni, e uccideva la parola e il respiro. Appena questa massa si gettò fuori da me, riebbi la parola. È quella la malattia, quella melma che copre i polmoni, li riempie e non permette il respiro. Io mi sono salvato, se mi sono salvato, perché ho mantenuto un minimo di respirazione. È stato come se avessi gettato fuori il diavolo e da quel momento respiravo anche da me stesso, sempre con la maschera di ossigeno che mi aiutava. Ho sempre temuto di perdere la passione per la felicità, che è la ragione dell’esistenza. Che accadesse un avvenimento talmente doloroso da ottenebrarmi la voglia di gioire. Ciò che ho vissuto nel delirio è così potentemente desolante che pare inutile continuare a vivere, ma la mia natura, dopo momenti di assoggettamento a questo stato d’animo, risorge e vuole vivere. E nel deserto umano si avvicina chi mi dà ragione di proseguire la vita, e chi riesco a sentire e mi sembra che la notte passi e vedrò l’alba. Ma direi il falso se non dichiarassi che il pensiero della morte mi ossessiona. 

Gli anni passati, ormai accumulati su di me e la vicenda che sto navigando, m’inclinano, mi obbligano al pensiero della morte che in fondo è il pensiero più inutile, giacché non vi è uscita, quindi il pensiero della morte diventa pensiero su come vivere sapendo di morire. E come vivere sapendo di morire? Esaltandosi, accecando con il fare ogni altro pensiero, distrarsi, fingere che vale operare, altrimenti si sta a guardare la parete vuota e i passaggi dell’alba, del giorno, della sera dalla finestra dell’ospedale così a vuoto. È una annullatrice la coscienza della dissoluzione che invade dopo una malattia come l’ho vissuta, una stanza buia senza porte e finestre che scende in un fosso e viene ricoperta ancora più buia. È l’esperienza della morte nella vita, proprio la morte, io mi vedevo morto in queste acque tumultuose o in una bara, dove ricevevo continue celebrazioni funebri o ero vivo però con la mia bara a vista. Non è facile risorgere alla conquista della vita dopo questo inabissamento, né continuare a vivere come prima. Una frenesia di adempimenti, una voglia di non sprecare tempo e di impedire che gli altri ce lo impoveriscano. È l’altra coscienza di essere un individuo nell’universo, così minimo, che la consapevolezza di essere mortale e minimo possa alterare la mente. Davvero che fare per sentirsi vivere e costituire qualcuno, qualcosa, un’entità?

Negli ospedali, nelle carceri, nei luoghi di concentrazione, l’individuo è in pugno agli altri. Bastano due o tre forzuti e ti buttano in un angolo per farti morire. Basta dimenticarti in una stanza. Certi momenti, quando mi lasciavano ore e ore solo, io immaginavo che si fossero dimenticati di me, non avevo modo per comunicare, gridare, non avevo voce e così ero certo che la mia vita sarebbe finita in un letto d’ospedale, con le terribili luci accesissime che mi spaccavano gli occhi. Poi sentivo l’odore dei cibi cotti e qualche rumorino che percepivo in maniera estrema e iniziavo a pensare che qualcuno sarebbe entrato e finalmente giungevano le infermiere come se niente fosse, mentre io ero stato imprigionato nell’ultimo girone dell’inferno. Sarei curioso di parlare con qualcuno che è vissuto nei campi di concentramento o nella guerra o con la malattia simile alla mia. Che cos’è un uomo dopo questa esperienza? Questa malattia in taluni momenti mi suscita tale condizione d’animo. Ciò che ho vissuto nel delirio è così potentemente desolante che pare inutile continuare a vivere, ma la mia natura, dopo momenti di assoggettamento a questo stato d’animo, risorge e vuole vivere. E nel deserto umano si avvicina chi mi dà ragione di proseguire la vita, e chi riesco a sentire e mi sembra che la notte passi e vedrò l’alba.

Se non si sperimenta la tragedia si ignora la vita, ma sperimentando la tragedia finale, la vita in un modo radicalmente modificato, si perdono scrupoli e necessità e si va diritti al desiderio. Se la società mondiale si volgesse alla concentrazione di ricchezza in persone o gruppi sempre meno numerosi e il resto si degradasse con la proletarizzazione del ceto medio e la sotto-proletarizzazione del proletario, potrebbe durare a lungo una situazione del genere? Si diceva che proprio questo è lo scopo di certe tendenze previste ampiamente nella sociologia dell’Ottocento, ma si riuscirebbe davvero con i mezzi di comunicazione e il Covid a stabilire un dominio sulle masse? Il Covid agirebbe come deterrente contro ogni protesta associativa, i mezzi di comunicazione persuaderebbero gli individui attraverso una cognizione capillare di ciascuno. Ma sarebbe durevole una situazione del genere? E che società ne verrebbe?

Qui non si tratta di un’aristocrazia al modo greco o romano, che avrebbe come scopo una società estetica. Si tratterebbe di una semi-schiavitù puramente economica, non qualitativa. Che senso avrebbe una società di ricchissimi o di poveri e impoveriti?! E quanto potrebbe durare? Ma d’altro canto, se ceto medio e proletariato non sono capaci di agire e formulare soluzioni, questo avverrà a meno che non si giunga a una compattezza tra ceto medio e proletariato. L’impresa dell’auto-occupazione ha come scopo il profitto per l’auto occupazione, non il profitto licenziando. È lo spartiacque tra le due forme economiche del futuro. Vi sarà la tendenza oligarchica disoccupativa e la tendenza sociale dell’auto occupazione, il consumo e l’occupazione. Non sarà né facile, né senza conflitti gravissimi, ma in ogni caso è un illusionismo insostenibile di gestire immani gruppi produttivi in società povere.

Questa contraddizione obbligherà a un’economia sociale, una produzione senza consumi è una produzione inutile anche ai produttori. Questa è l’antitesi del futuro. Siano o meno serviti il Covid e i mezzi di comunicazione ad annientare proletariato e ceto medio, nel lungo periodo una società di produttori senza consumatori è insostenibile. Mi dicono che passerò in riabilitazione. Non so se sono guarito: questa è la conclusione.

 


di Mario Scaffidi Abbate