Luigi Pirandello, la volontà del nulla

giovedì 14 ottobre 2021


Personaggi della civiltà

Alla fine della vita, Luigi Pirandello credeva soltanto alla morte. E la morte peggiore, la distruzione del corpo, persino, bruciato, polverizzato, messo al vento. E nessun funerale d’onore, nessun commiato celebrativo dell’umanità nei suoi confronti. Una separazione categorica tra sé e gli altri, una non appartenenza al genere umano ed alla società. Da anni cercava la distruzione, non quella fisica, che poi gli verrà con acre gioia dalla morte, ma la distruzione dei “valori”, irrisi, discussi, sovvertiti, e sempre al negativo. La verità della conoscenza? Da beffarsene. I principi morali certi? Da schiattare. Non credeva più, se mai avesse creduto, che l’uomo avrebbe potuto raggiungere un risultato confortevole, apprezzabile, approvabile. L’uomo di Pirandello stava tra la pazzia reale, la pazzia volontaria, la mascheratura imposta dalla società o scelta. Indossa questi abiti e continuava il teatro dell’esistenza che il teatro della scena riportava perfettamente, ciascuno a recitare un ruolo. Ma non come si intendeva nel passato, che la vita è un vivere teatrale, no, la vita è un vivere teatrale perché la società ci impone dei ruoli ai quali non vorremmo, spesso, dare espressione ma che la società ci obbliga, siamo, dunque, attori costretti, la società ha bisogno di ruoli fissi, di maschere, dentro le quali, dietro le quali vi sono persone che possono o potrebbero o vorrebbero contraddirle, mentre la società le costringe a quel ruolo, impone le maschere, ripeto, si accontenta delle maschere.

Luigi Pirandello nacque a Girgenti (Agrigento) nel 1867, la sua famiglia era benestante, possedeva miniere di zolfo, e aveva fede risorgimentale. Pirandello è, con Giovanni Verga, il più siciliano degli scrittori siciliani. Non che un Luigi Capuana, un Vitaliano Brancati, un Tomasi di Lampedusa, anche Elio Vittorini, anche Salvatore Quasimodo non lo siano, ma ad un livello superiore lo sono Giovanni Verga e Luigi Pirandello. E può sembrare forzato tale accostamento, perché Giovanni Verga è siciliano in tutto, esplicito, le novelle, i romanzi della maturità sono ambientati in Sicilia, mutuano il linguaggio siciliano, animati da “tipi” siciliani, i Malavoglia, Mastro Don Gesualdo, mentre il Pirandello più celebre non ha ambientazione siciliana. Tuttavia. Luigi Pirandello cumulava in sé la Grecia dei Sofisti e dello Scetticismo e la crisi radicale del finire del XIX secolo, quando la Scienza a sua volta dubitava di se stessa, di leggi naturali certe e ripetute per sempre, di una realtà conosciuta definitivamente cd universalmente condivisa. Anche la morale perdeva universalità e stabilità e riconoscibilità. Pirandello esistenzializza, non si limita a teorizzare, infiamma, immette nei personaggi queste accensioni squassative. E le fa arte. Ed è insieme europeo e siciliano, il tipo del siciliano sofistico, che discute, spacca il capello, vuole avere ragione nel non credere alla ragione, una ragione dissolutrice, pessimista radicale, che però tiene alla cultura, professorale. Scrisse fin da ragazzo, quindi un romanzo risorgimentalista, a Roma per studiare, in lite con il Rettore dell’Università, si recò in Germania, si laureò con una tesi di filologia, ebbe relazione con una fanciulla, Jenny, che divenne scrittrice e che Pirandello, negli anni della celebrità, non volle rivedere. Tornato in Sicilia , si unì ad una giovane, Maria Antonietta Portulano, la cui doviziosa famiglia aveva rapporti di affari con la famiglia di Luigi. Matrimonio concordato ma la coppia si ama. Vanno a Roma, sono benestanti per soccorso dei parenti, nascono figli, saranno Stefano, Lietta, Fausto. In questa vita colma e sicura avvengono terremoti, Maria Antonietta diviene furiosamente gelosa del coniuge, le miniere di zolfo di famiglia vanno in rovina. Pirandello è costretto a dare anche lezioni private, intanto scrive, scrive e manifesta il suo mondo, irregolare, di personaggi spostati, marginali deliberatamente, non posti a svolgere ruoli sociali prestabiliti, o accantonati, discriminati. All’inizio Pirandello concepisce narrativa, sarà dagli anni della Prima Guerra Mondiale che inizierà una strepitosa attività teatrale.

È un teatrante di natura, dialoghi tambureggianti, mozzi, argomentazioni stravaganti, situazioni anomale, ed i suoi temi opprimenti: io sono mille io, io sono un ruolo sociale da cui gli altri esigono un comportamento obbligato, io sono dentro un ruolo ma non mi identifico con il ruolo, io sono etichettato, escluso, io per essere me stesso devo fingere o diventare pazzo giacché la società vuole la mascheratura dei ruoli obbligati, non c’è verità, ciascuno vede la realtà a suo modo, o diventa quel gli altri vogliono che sia, il tutto avvolto in una desolazione desertica, arida, continua, una disperazione inconfortabile. Non soltanto non c’è Dio in Pirandello ma non c’è neanche il sostegno umano, anzi ciascuno accusa l’altro, nessuna intesa, ogni individuo sta nella sua maschera, o nella sua “verità” e cerca di invalidare la “verità” altrui. Campeggia in Pirandello un Personaggio, chi irride coloro che credono di possedere la verità. Luigi Pirandello, per sua disposizione d’animo, teorizzata, fu un umorista, scrisse un saggio in materia, 1908. Gli esseri umani sono oggetto di comicità se li osserviamo nel loro spesso risibile voler essere chi non sono, non voler essere chi sono, però se noi consideriamo questa alterazione come il tentativo dolente di chi, poniamo, vecchio vuole ringiovanirsi, grasso snellirsi, cogliamo che nel comico vi è il tragico, nel ridicolo Don Chisciotte il tragico sognatore dell’eroismo perduto, e ne viene l’umorismo, il comico-tragico. I dialoghi dei suoi drammi, dicevo, sono snelli, mediati sul parlato, agitati, non le frasi allineate, magari ben scritte ma non idonee a persone che parlano, in quanto troppo corrette, con punti e virgole ufficiali. Vi è in Pirandello movimentazione, interruzione, insomma, un dialogo di personaggi non solo da leggere, un dialogo per il teatro. E poi, quel ragionare sul crinale della stravaganza, dell’assurdo, del paradosso.

Pirandello e il fascismo

Luigi Pirandello si iscrisse al Partito fascista al tempo dell’uccisione di Giacomo Matteotti, 1924, il periodo peggiore o l’inizio del peggiore periodo del fascismo, la dittatura. Inoltre firmò una dichiarazione di intellettuali in appoggio al fascismo stilata da Giovanni Gentile, filosofo del Regime, opposta alla dichiarazione del filosofo liberale Benedetto Croce. Una spiegazione pirandelliana alla decisione di Pirandello per tali sue scelte potrebbe essere che Egli, volgendo al peggio, alla rovina, sceglieva la degradazione sfiduciato della vita. Ma non credo sia questo il motivo della decisione di Pirandello. Credo che scorgesse nel fascismo la prosecuzione del Risorgimento di cui si era imbevuto in famiglia, l’orgoglio nazionale e soprattutto non credeva ai liberali, li giudicava presi dal male costitutivo della borghesia, l’ipocrisia, essi sotto la maschera della libertà avevano dominato, schiavizzato, affamato, fatto guerre, sterminato. Pirandello arrivò a sostenere le imprese coloniali del fascismo per le stesse ragioni, il colonialismo era intrinseco ai paesi detti democratici e liberali, perfino il razzismo, come era accettabile condannare il fascismo da parte di chi agiva allo stesso modo dichiarandosi liberale, democratico? Queste, suppongo, le convinzioni di Pirandello.

Ma erano convinzioni che non entrano nella sua opera, dove non sussiste alcuna speranza trionfalistica e di oltrepassamento vitalistico del nichilismo come supponeva il fascismo, che credeva nella forza e nella potenza. L’opera di Pirandello è una deliberata, ricercata, virulenta terra bruciata di ogni conforto. Egli vuole presentare all’uomo la realtà desolata, gode, direi, di strappare illusioni e sostegni, dalla società alla vita niente è confortante. Nessun Dio, nessuna morale universale riconosciuta, nessuna verità, ciascuno vive imprigionato nella sua multiforme individualità, obbligato ad un ruolo, costretto a comportarsi secondo quel ruolo, depauperato del proprio sentire sentito, che, se mai, può esercitare soltanto rendendosi pazzo o fingendosi pazzo, giacché la società impedisce di essere chi veramente sei, oltretutto non sappiamo chi siamo. L’individuo in Pirandello ha perduto identità, è un ruolo non una persona, del resto, come persona, è frammentata, cangiante, l’uomo non ha un punto fermo, un punto di verità, soltanto fuori dalla società, dai ruoli imposti: soltanto nella follia possiamo manifestarci per chi siamo, ma in tal caso la Società ci considera folli, chi è se stesso per la Società è un pazzo, per stare nella Società occorre fingere, addossarsi un ruolo non proprio, un ruolo sociale, convenzionale. Queste concezioni, queste convinzioni Pirandello le espresse in tutte le sue opere, con evidenza massima nelle opere teatrali.


di Antonio Saccà