Giovanni Pascoli, il dolore in versi

Personaggi della civiltà

Quanto Giovanni Pascoli non ha in propulsione energica del verso, lo risarcisce con una speziatura linguistica che manca e non interessa Giosuè Carducci, e primeggerà in Gabriele D’Annunzio. Pascoli è addentro ai nomi dei fiori, ai diversi uccelli, agli insetti, nomi inconsueti tinteggiano i suoi versi, e la tavolozza gli si variopinta di coloriture verbali, animate per la novità dei termini e delle percezioni di realtà inconsuete. Pascoli penetra nell’universo vegetale e animale, piccole animazioni di piccoli animali, risentendone i suoni, l’aspetto, il flusso d’esistenza, e così dell’universo vegetale, egli appartiene con adesione condiscendente al mondo naturale, in maniera più particolareggiata e meno filosofica di Giacomo Leopardi, nel quale la Natura, se è la luna, la campagna, l’infinito sovrastare dell’esistente, è anche indifferenza, inspiegabile, spietata. In Pascoli c`è la Natura in dettaglio, la rana, il grillo, la lodola, i fiori, in dettaglio, ripeto, non una filosofia della Natura. Egli ne è preso, dai particolari, li denota, vi presta orecchio e sguardo, anche se talvolta anch’egli leopardeggia sulla Natura.

Il Pascoli maggiormente conosciuto, e riconosciuto, è l’Autore di poesie rattristate nelle quali manifesta vicende e stati d’animo che lo perseguitano durevolmente: la tragedia familiare con la morte per uccisione del padre, l’umana desolazione a cogliere l`uomo crudele con l`uomo, e i derelitti, i calpestati, gli infelici, nell’insensatezza del Cosmo. I piccoli piacere, le minuscole gioie che la Natura e l’Arte gli suscitavano stavano all’interno di tanta tristezza. Pascoli, dicevo, è ossessionato, rincorso dalla morte, dalla tragica condizione umana e della sua famiglia sul lastrico, pensa, ripensa, torna, ritorna, il pensiero della madre talvolta accende un angolo d’amore, svanito. Di questa sua tragedia, dicevo, Pascoli fa esempio di tragedia universale, punto fermo, abisso di catastrofe. Cimiteri, bambini morti, vuoto di affetto, paura, povertà, solitudine, si rendono poesia, incubo, la mente ne è vincolata come la ruota al perno. La poesia X Agosto comincia con una certezza, di sapere, Pascoli, perché le stelle cadono, in quella notte, piangono, le stelle, piangono l’umana sorte. Di scatto, il testo esprime situazioni di dolore, da far piangere le stelle, la rondine che torna al nido recando nel becco gli insetti per i suoi rondinini, uccisa; il padre del Pascoli che recava due bambole in dono per le figlie, ucciso. La chiusa rivela perché, dunque, il cielo inonda di pianto di stelle il Mondo, “quest`atomo opaco del Male”.

L’Aquilone. È una composizione di maggiore estensione, lirico narrativa. Pascoli si figura tempi andati, il nascere delle viole, immagina, e che in cielo volteggiano gli aquiloni, ed i compagni, ricorda, ciascuno con il suo aquilone che “ondeggia ,pencola, urta, sbalza/ risale, prende il vento, ecco pian piano/ tra un lungo dei fanciulli urlo s’innalza”. Ed i fanciulli si ergono quasi a volare con l`aquilone, “più su, più su” ma il vento spezza quel volo, i ragazzi gridano, il grido suscita un altro ricordo, i compagni della camerata di collegio, uno dal pallore muto del viso, uno che morì precocemente come l`aquilone che spezza il filo, uno che la madre pettinò dolcemente, dopo la morte, per non fargli male, quasi fosse ancora in vita, lo volesse tenere in vita.

Paulo Ucello è lunga narrazione in versi, movimentati, come al solito in Pascoli, snelli, nervosi, ha da protagonista un personaggio che fu una persona, Paolo di Dono, celebre pittore, inventore della prospettiva, e amantissimo degli uccelli, da ciò gli venne il soprannome. Umilissimo, poverissimo terziario francescano, e tuttavia amico e pari agli illustri artisti nel mirabile Rinascimento fiorentino, Donatello, Brunelleschi. La dolorosa e pur festosa qualità della poesia sta nel desiderio di Paolo di possedere un uccello, e non soltanto dipingerlo”: ma un rosignolo io lo vorrei di buono./ Uno di questi picchi e questi merli,/in casa che ci sia, non che ci paia! Un uccellino vero, uno che sverli,/ e mi consoli nella mia vecchiaia”. Ma Francesco, il Santo, che tutto conosce, avverte questo desiderio di Paolo, si che scende dal Cielo, e lo rimbrotta, non soltanto per voler possedere ma per voler far prigioniero il libero uccello che volerebbe nei campi. Questa civiltà dello spirito, striminzito di cose materiali e supremo nello spirito, appunto, ha nella percezione delle menti e nella ricchezza linguistica appropriata, specie agli uccelli, un brioso andamento, festoso e malinconico, dicevo, nel quale sovrasta il delicato, dolce, incantato Paolo, ed un’epoca nella quale l’arte valeva sovranamente.

Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna nel 1855. La sua esistenza ebbe un segno di fatale sconvolgimento per l’uccisione del padre, Giovanni ne fu piagato per sempre. Perse anche la madre a cui era legatissimo. ln questi orrori ebbe la forza di studiare, procedere, essere docente, scrivere divenne un poeta inconfondibile, divenne Giovanni Pascoli, con modi propri; cadenze sue; linguaggio personale; mondi caratterizzati, recò nella poesia italiana una sensibilità dolentissima, di circostanze minuziose, sconsolatissima, con puntigliosità lessicale mutuata dalla natura vera e propria, e ritmi saltellanti; agilissimi; filiformi; nervosi. Esiste anche un Pascoli che spazia il verso, lo solennizza, canta. Ebbe idee socialiste in gioventù. Di poi coniugò il socialismo con il Nazionalismo, vita sentimentale presso che inesistente, attaccatissimo alle sorelle, e, dopo il matrimonio di una, il che lo turba estremamente, visse con la devotissima sorella Mariù; fu cultore di Dante, insigne latinista. È tra i più amati, svillaneggiati, poeti della nostra letteratura per la sua straziata e nitida poesia, lamentosa per taluni, commovente per altri. Quando il dolore lo ispira è poeta, oltre ogni riserva. Morì nel 1912.

Aggiornato il 19 ottobre 2021 alle ore 10:43