“È stata la mano di Dio”, Evviva il munaciello!

Federico Fellini, Chi? Quel famosissimo regista sognatore che, come dicono i suoi detrattori, faceva pagare i suoi incubi a peso d’oro agli incauti spettatori? Proprio lui. Emulato da tanti, troppi imitatori di scarso, come di sicuro talento. E, tra questi ultimi, si annovera senza alcun dubbio Paolo Sorrentino, che ne insegue in ogni dove il suo spirito folleggiante nel suo ultimo criaturo autobiografico, dal titolo È stata la mano di Dio. Tant’è vero, che al geniale creatore di Amarcord sono dedicate alcune scene centrali in cui se ne ascolta soltanto l’inconfondibile voce a cantilena, mentre ordina ai suoi collaboratori di allineare su una parete foto e istantanee di attrici e donne bellissime, passate e presenti, secondo un ordine rigorosamente casuale.

Ma chi accusa Sorrentino di sospetto plagio non ha, evidentemente, visto (bene) il suo ultimo, viscerale lavoro. E, stavolta, l’autobiografia sorrentiniana non è il solito Dolmen egoico che Federico ci propinava senza risparmio a ogni sua uscita, con le paillettes, le rotondità oscene e deformi di quadri boteriani mai dipinti, ma certamente elaborati e articolati negli incubi frequenti, e accuratamente riportati nei suoi bozzetti colorati (Fellini era un grande vignettista, tra l’altro!). No, stavolta siamo nella Napoli mitica del Munaciello, noto spiritiello del folklore napoletano, benefico quanto dispettoso che, però, annuncia sempre qualche evento straordinario nella vita di chi lo sogna a occhi aperti.

Magari, che so, al primo incontro mette pesantemente le mani sotto la gonna di una femmina sterile che vuole a tutti i costi un figlio, incontrando uomini a caso, di nascosto del legittimo marito, pur di diventare finalmente madre. Invece, nel secondo e ultimo passaggio clou del racconto autobiografico, il piccolo monaco deforme ti aspetta in una stazione di passaggio con il volto di te bambino, per augurarti un felice viaggio e, forse, la fine di un dolore che non passa. Sostenuto da un cast di attori a prova di critica, il film lega l’Ulisse interno al Polifemo calcistico in un viaggio nell’ombelico e dintorni di una Napoli degli anni Ottanta, in attesa della Madonna pellegrina, quel Diego Armando Maradona che avrà diritto al ricordo perenne da parte di tutto il popolo della città, con una statua collocata all’uscita verso il terreno di gioco, nello stadio del primo scudetto partenopeo. Al centro di una sorta di Foto di Gruppo con Signora, c’è una famiglia borghese napoletana, gli Schisa, con il cuore decisamente a sinistra ma, anche e purtroppo, con le solite corna al centro del campo, che fanno sì sempre male, ma che talvolta vanno a finire come condimento del ragù in certe tavolate rumorose e affollate del parentado. Fabietto/Paoletto (Filippo Scotti) è un giovane adolescente palesemente vergine, con l’atteggiamento autistico-ribelle di quelli della sua età all’epoca dei fatti, con le perenni cuffie da walkman scese sulle spalle o rigorosamente incollate all’orecchio, per tenere fuori i discorsi e i fastidiosi rumori di fondo del mondo di là.

Padre e madre, Saverio (Toni Servillo) e Maria (Teresa Saponangelo) gli appaiono come una coppia perfetta: un convinto comunista e una casalinga, che si cercano e si parlano come due usignoli, al suono di un richiamo reciproco elaborato e custodito come un tesoro linguistico fin dal loro primo incontro. Tutto al contrario di quella di sua zia, la sorella della madre, Patrizia (Luisa Ranieri), e di suo marito Franco (Massimiliano Gallo), zoppo, esasperato e violento, incapace di contenerne la sensualità e sessualità prorompente che la rende capace di ogni provocazione e di altrettanta disperazione. Atteggiamenti che spingeranno la formosa Patrizia, da un lato, a mostrare il suo corpo nudo dalle curve abbondanti e generose, presentandole senza veli agli occhi innocenti e attoniti di Fabietto e degli altri maschi della famiglia; mentre, dall’altro, la confineranno in un girone dantesco senza ritorno. Così, da reclusa, lancerà al nipote una batteria da torcia, che farà coincidere un inizio e una fine, in cui simbolicamente prima si toglie e poi si dà una voce libera a chi non ne ha, per eccesso di introversione.

Fabietto e il suo autismo hanno come Alter ego due figure: un padre raffinato umorista, che coglie e amplifica i dati delle situazioni paradossali, esercitando una sorta di incantamento su quel suo figlio minore adorante, che però si sconvolge dalle convulsioni quando sua madre ha una violenta crisi isterica per l’onnipresenza dell’amante di suo marito, che non ne vuole sapere di abbandonare la loro scena coniugale, animandola con allontanamenti e ricongiungimenti, come farebbe la risacca di un inarrestabile moto ondoso. L’altro solido e incrollabile legame affettivo di Fabietto è il fratello Marchino (Marlon Joubert), il boyscout che traccia le mappe della salvezza e ne addomestica le crisi con l’abbraccio solido e teso di un anaconda: proprio lui che, a seguito della tragedia della morte improvvisa (e, in fondo, davvero stupida) di entrambi i genitori, sa lasciare andare il fratello alla ricerca di un futuro ignoto, ma chiaro.

E questa luminosità viene dall’incontro di Fabietto/Sorrentino con una sorta di maestro della dissacrazione e dei sapori crudi e crudeli in cui si narra l’umanità derelitta di Napoli: quel regista Capuano che declamando scende con lui nei recessi della città sotterranea e segreta come una sorta di Virgilio, per rivelargli stavolta una Beatrice al contrario, di cui si era invaghito il suo sguardo di adolescente digiuno di cose di teatro. È Capuano che lo invita brutalmente a liberare con il bisturi il vero sentimento violento e profondo che giace come un feto morto nelle sue viscere, forando così quella sua sacca neonatale che lo tiene prigioniero al momento della nascita, e che gli impedisce di venir finalmente partorito appieno come individuo.

E, ogni volta, i momenti di catarsi, l’uscita dalle situazioni critiche sono sempre cadenzati, come l’incontro con Capuano, da un tuffo in mare come si farebbe con un battesimo ricorrente, nella costante ricerca di purificazione. E, poiché per estrarre un elettrone dalla sua struttura cristallina occorre una forte carica puntuale di energia portata da una particella di luce, così Fabietto per la sua deflorazione dovrà passare attraverso la nave scuola di un’anziana istruttrice, abbandonando la sua città per un miraggio artistico, con il solo presagio favorevole e accondiscendente del Munaciello che lo saluta scoprendo la sua testa sorridente di ragazzino. A Napoli Fabietto lascerà il suo spirito tormentato, rinchiuso perennemente nel bagno di casa come sua sorella, ombra assente in controtendenza con quella carnale, tangibile del fratello Marchino. Un film fin troppo esuberante nella sua prima parte, e fin troppo lento, intimista e doloroso nella seconda che, forse, poteva perdere un po’ dei suoi spazi vuoti per dirci qualcosa della seconda vita del suo Autore. Sarà per la prossima avventura dietro la macchina da presa? Chissà.

Aggiornato il 01 dicembre 2021 alle ore 16:58