Piazza degli eroi: I fantasmi reificati

mercoledì 19 gennaio 2022


Un’epigenetica della profezia. Così appare lo spettacolo Piazza degli eroi (molto bello e originale) dell’autore austriaco Thomas Bernhard, per la regia di Roberto Andò, in scena al Teatro Argentina (Roma) fino al 23 gennaio. Un Dna della memoria passata, presente e futura, in cui l’elica ci dice, grazie al suo Rna, che il passato potrebbe resuscitare, partorito dal ventre di un presente dominato da correnti di sovranpopulismo allo stato brado. Lo scenario, la scenografica, i costumi degli attori costituiscono l’organo-organismo teatrale della Rappresentazione, per cui il 1938 tracima nel cinquantennio successivo, seguito da un riflusso opposto che lo riporta al punto di partenza, come un pendolo in moto perpetuo. Una coppia Dna-Rna, mossa dall’energia occulta della memoria e dai dialoghi-monologhi (dentro e fuori campo) del sopravvissuto professor Robert e di sua cognata. Sul palcoscenico lui, il fratello del defunto, è il protagonista fermo e strascicante, come una colata di lava vesuviana mentre scende a valle, che impersona il monumento claudicante al Cicerone massimo dell’invettiva contro il Catilina collettivo della destra filonazista di quella fine degli anni Ottanta del secolo scorso. È all’epoca, infatti, che le cronache registrarono l’ascesa di Jörg Haiderm a segretario del Partito liberale, con Kurt Waldheim (dall’inquietante passato nazista) Presidente della Repubblica d’Austria. Marcio, tutto è marcio, è l’anatema che scivola come acqua di fonte dalle labbra di un rancoroso Thomas Bernhard.

Marci sono, soprattutto: la politica; la cultura; l’Accademia con i suoi professoroni ignoranti, ben pagati e intrinsecamente mafiosi; la vita; l’arte stessa nelle sue sublimi creature della musica e della letteratura. Perché, sì, l’Arte, anche lei, è sempre e solo inganno; un’esca prelibata; un dolce elisir per le classi dotte, ignoranti e incoscienti rispetto a tutto il resto, per avere lasciato marcire il loro senso di responsabilità sociale! Né destra, né sinistra sono portatrici di salvezza e, soprattutto, il socialismo è il grande traditore dell’Umanità oppressa e perseguitata: proprio quel Sol dell’Avvenir che ha svenduto il suo soggetto storico al Demone del Dio Denaro! Ma poiché per Bernhard proprio tutto è contemporaneamente interno (la famiglia) ed esterno (la società), allora le nefandezze di fuori si ripercuotono, riecheggiano, si rassomigliano a quelle di dentro, in cui la vittima è una moglie, i consanguinei, i conoscenti e i colleghi, piagati dalla chimica urticante delle parole, dei gesti e soprattutto dell’indifferenza mostrata verso di loro dal professor Josef, il cui suicidio non solo non cancella ma fa da cassa di risonanza nei loro cattivi ricordi postumi. Non scusa né guasta il fatto che il suicida sia un ebreo sopravvissuto se, poi, da quel potente veleno di vipera uncinata la vittima innocente non sa omeopaticamente elaborare un farmaco, un nutriente per sé e per gli altri che dia speranza alla vita che verrà, alla cura dei mali attuali e futuri dell’Umanità.

Nello spazio simbolico e sintattico dell’opera, la governante, Signorina Zittel, è la voce narrante presente sulla scena che ci parla della vita, delle passioni e delle ossessioni (come la piegatura delle innumerevoli camicie, rigorosamente di cotone, acquistate in vari negozi d’Europa) del suo datore di lavoro, il professore di matematica Joseph Schuster. Illustre accademico, morto suicida per essersi gettato da una delle altissime finestre di una grande casa viennese che affaccia su Piazza degli Eroi, in cui Adolf Hitler ebbe a celebrare l’Anschluss, osannato da una folla immensa di austriaci plaudenti. E saranno proprio quei rumori di folla in delirio, i passi cadenzati di decine di migliaia di armati e miliziani con al braccio la fascia rossa uncinata, le divise nere come la Notte della Ragione (di cui i suoi adepti saranno i dispensatori seriali) a condurre alla pazzia e al colpo apoplettico la moglie di Josef. Lei, Frau Schuster, nata inglese e trascinata Vienna contro la propria volontà, costretta dalla sua follia a risentire ogni giorno e ogni notte i frammenti di quei tumulti prodromici di una persecuzione senza fine, della fuga precipitosa nell’immediato per salvarsi la vita, in quel 1938 in cui gli uomini si sono decomposti, per sedersi al tavolo della disgrazia.

E, poi, ci sono gli oggetti-feticcio, come gli abiti che compriamo e non mettiamo mai. Simbolicamente, richiamano le tante personalità potenziali che avremmo potuto. Indossare ma che non abbiamo mai avuto il coraggio o l’opportunità di fare. Dato che, in buona sostanza, la vita è tutta una sequenza di multiforcazioni (due, tre, quattro). Contenuta nel guscio amaro della nostra esistenza. E tutte le scelte non fatte, messe in naftalina, sono per l’appunto come gli abiti che fanno bella mostra di sé nei capienti scaffali dell’immenso armadio verticale gestito dalla governante Zittel, che incute timore aprendosi e crea angoscia chiudendosi mentre lo si guarda, come lo farebbe una parete verticale piatta, altissima, inespressiva. Le valige arrangiate in una fila ordinata, come le innumerabili paia di scarpe protese verso il catino della platea, si caricano di simboli ossessivi e compulsivi dell’era consumista moderna ma, al contempo, si atteggiano a mementi di un passato genocidiario (come la Shoah) che forse potrebbe tornare, stando ai fantasmi nazisti che agitano l’opera teatrale di Bernhard. Persino le feuilles mortes sono lembi di pelle che cadono sui sopravvissuti e sui figli dei figli dell’Olocausto, così come fanno i secondi, gli anni, i secoli stessi staccatisi dall’albero della vita che passa, non ritorna ma rinasce.

Rinasce sempre, perché la terra stessa si nutre e si rigenera proprio dai processi di macerazione di quelle foglie cadute, come dalle ceneri degli esseri umani andati in fumo. Così quel vecchio testardo ateo di zio Robert, per cui il “il fine ultimo della vita è la sua Fine”, perché poi la Morte è il risultato ultimo della Nascita, si fa sostenere dalle sue Scilla e Cariddi, da quelle due nipoti così tanto diverse, ma così consolatrici come corifee che ti aiutano ad attraversare il ponte tibetano della malattia, camminando a piedi e su gambe malferme, sostenuto da una coppia di bastoni e dall’amore filiale. Lo si attraversa sempre per ultimo questo passaggio comune, fino al momento apicale della conclusione: quell’ultimo respiro che suo fratello ha preferito abbreviare, tirandolo tutto d’un soffio nel tempo della caduta, dettato dalla legge di gravità per cui nemmeno alla realizzazione del desiderio di morte si può comandare l’immediatezza. Però, poi, la Vita c’è e l’Arte è catarsi e redemptio, per cui dentro e fuori gli atti della pièce si addensa l’adorata musica, che ha un suo spazio autonomo nella messa in scena di Andò a seguito della bipartizione della scena, con un pianoforte protagonista degli intervalli tra i vari atti che cuce e scuce i luoghi simbolici tra Thanatos ed Epos, lasciando che il suo esecutore si aggiri come un fantasma nella scena aperta, giocando da figurante con scarpe e valige, testimone silenzioso di un passato che desta orrore. E, noi, da che parte staremo?

Piazza degli Eroi

di Thomas Bernhard

Traduzione Roberto Menin

Regia Roberto Andò

Interpreti: Renato Carpentieri, Imma Villa, Betti Pedrazzi, Silvia Ajelli, Paolo Cresta, Francesca Cutolo, Stefano Jotti, Valeria Luchetti, Vincenzo Pasquariello, Enzo Salomone.

Scene e luci Gianni Carluccio

Costumi Daniela Cernigliaro

Suono Hubert Westkemper

Aiuto regia Luca Bargagna

Assistente alle scene Sebastiana Di Gesù

Assistente ai costumi Pina Sorrentino

Amministratrice di compagnia Angela Carrano

Foto di scena Lia Pasqualino

Diritti di rappresentazione Suhrkamp Verlag – Berlino rappresentata in Italia da Zachar International – Milano

Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Fondazione Teatro della Toscana – Teatro Nazionale

Teatro Argentina, Roma, fino al 23 gennaio 2022


di Maurizio Bonanni