“M. Il figlio del secolo”: Popolizio interpreta Scurati

sabato 12 marzo 2022


“La banalità del male” ha davvero abitato l’Italia nel Novecento? Ma sul serio eravamo il giorno prima tutti fascisti e poi, il giorno dopo la caduta di Benito Mussolini, il 25 luglio 1943, siamo improvvisamente diventati tutti antifascisti? Ma che cosa avvenne prima, durante gli anni che vanno dall’immediato Dopoguerra al 1943? Una documentazione monumentale di atti, testimonianze e accurate ricostruzioni storico-ambientali è contenuta nella trilogia di Antonio Scurati sul fascismo e il “suo” Duce, di cui hanno già visto la luce i primi due volumi.

Il primo, M. Il figlio del secolo vede la sua riduzione teatrale all’Argentina di Roma, con la regia e l’interpretazione di Massimo Popolizio, in scena fino al 3 aprile, per uno spettacolo davvero monumentale di tre ore di recitazione che, però, hanno ali di farfalla e trovate sceniche di sicura genialità. Tutto davvero è posto in rapida rotazione in questo spettacolo: scale, anfiteatri parlamentari, alcove, scrivanie ministeriali e redazionali, finte autovetture al comando del fascistissimo e violento Amerigo Dumini, che guidò la squadraccia fascista durante il sequestro e l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti. E, poi, cascate di immagini d’epoca ed effetti speciali, che si spandono con affascinanti giochi di luci e ombre sullo sfondo e sui grandi volumi mobili del complesso scenario. A seguire, cori di ogni genere, dai canti popolari contadini e operai, a quelli retorici dei fasci, alle grida da stadio quando serve e occorre per insultare e terrorizzare gli avversari moderati, liberali e socialisti.

L’assalto alle Case del Popolo; le arringhe dei capi socialisti roboanti, che tutto dicono tranne che prendere la decisione giusta al momento opportuno, ovvero quella di fare armi alla mano la Rivoluzione, sempre lì a un passo, invocata dal proletariato operaio e contadino e mai messa in atto dai vertici, mentre si consumano nella rabbia e nella disperazione i primi scioperi di massa nelle fabbriche della Fiat, con le stragi susseguenti di scioperanti volute dai padroni che non si rassegnano alla cogestione (avveniristica) delle fabbriche. Com’è magistralmente rievocato nelle scene teatrali quel 1919, dove gli arditi pezzenti (ai quali il nascente fascismo regalerà una nuova anima, legittimazione e riscatto) non esitano a gettare bombe e a sparare a mitraglia sulla folla che manifesta, ricevendo in cambio la gratitudine eterna del ceto agiato agrario e imprenditoriale, spaventato a morte dalle proteste socialiste.

Loro, i borghesi benestanti, saranno il nerbo che spingerà il fascismo ad avere la maggioranza assoluta in Parlamento, dopo il clamoroso fallimento delle prime liste fasciste nelle elezioni legislative del 1919. E com’è vero, apodittico, androgino, malato di retorica, pallido come la sua divisa bianchissima macchiata da un abbondante medagliere (tra cui spicca il nastrino azzurro della medaglia d’oro) e intriso di vero eroismo quel Gabriele D’Annunzio sifilitico, che conquista Fiume con il solo impeto della parola, capace di soggiogare il generale italiano a presidio della città occupata dagli alleati vincitori.

E che dire di Mussolini, della sua storia di guitto che si rigira la veste di pacifista, dopo essere stato direttore responsabile del quotidiano socialista L’Avanti e amico di gioventù di Pietro Nenni, per diventare un guerrafondaio e protettore della violenza politica amministrata dalle sue squadracce, che terrorizzano l’Italia del Nord e la civilissima Romagna. Lui, l’uomo della provvidenza, autentico burattino nelle mani (pardon, tra le gambe) della pur geniale, eccentrica e disinvolta marchesa Margherita Sarfatti, coltissima e mecenate d’arte, destinata a insegnare le buone maniere al rozzo Duce prima maniera che, poi, graziosamente, la metterà da parte a favore delle sue numerosissime giovani amanti. Perché tutta la retorica machista fascista sta proprio nella conquista sessuale e predatoria della femmina, vista come fattrice e soggetto da monta, prona alla soddisfazione delle voglie (rapide!) del suo padrone.

E, invece, chi era Giacomo Matteotti? Un eroe-non-eroe, che non rinuncia a vedere, sentire, documentare e denunciare l’immane ondata di violenza che si abbatte su quell’Italia povera e rancorosa del Primo Dopoguerra, in cui le promesse per il futuro dei reduci sono state tutte disattese, lasciando i congedati alla mercé del disprezzo popolare, disoccupati e pronti a usare la forza e a mettere a disposizione di un “Padrone”, Duce o Führer che sia, la violenza e il cinismo appresi in trincea e sui fronti di guerra. E Velia, la moglie di Giacomo, che aspetta, trepida, e ama disperatamente il suo uomo condannato al capestro da quella sua testardaggine, quel non voler mai cedere, né rinunciare a esporsi in pubblico e nell’anfiteatro parlamentare contro la fiumana nera che lo insulta e lo minaccia.

Ma la sua morte, che avrebbe dovuto essere la tomba del fascismo, diventerà, al contrario, il piedistallo su cui si fonderà il Ventennio fascista, quando Mussolini si assumerà in un Parlamento soggiogato la responsabilità politica di quel delitto. Nel 1919 i fasci prendono una manciata di voti, per stravincere tre anni dopo soltanto. Perché? Per Mussolini era necessario un tracollo del passato (la guerra; la crisi economica e quella dello Stato liberale) affinché il nuovo vincesse. È sempre lui che muta la paura in odio, legittimando la violenza e l’assassinio politico. Accadeva perfino all’epoca che la gente finisse impiccata con ganci da mattatoio senza che lo Stato intervenisse.

Questo perché le persone sono disposte a rinunciare anche alla libertà, purché ci sia una decisione che faccia cambiare la loro vita. Eppure, i socialisti di allora vantavano un consenso gigantesco, che hanno disperso con il sindacalismo legalitario e l’estrema frammentazione delle liste, senza mai fare quella Rivoluzione che, forse, ci avrebbe risparmiato gli immensi lutti somministrati all’umanità dal trionfo dei fascismi. Se non ci fosse stato il Duce, con ogni probabilità il suo emulo tedesco non sarebbe mai nato. Bellissimo spettacolo. Problematico, certo, goderselo fino in fondo mascherati per tre ore con le Ffp2!


di Maurizio Bonanni