“Teatro a Roma” raccoglie oltre 80 articoli di Sebastiano Biancheri

martedì 22 marzo 2022


Il rapporto tra il critico e il teatro come rappresentazione della società contemporanea

Perdonate il titolo pomposo, da tesi di laurea e ormai fuori moda ma la presentazione al Teatro degli Eroi di Roma del libro Teatro a Roma di Sebastiano Biancheri, edito da Gremese, consente di tornare su aspetti del mondo teatrale ormai ritenuti negli ultimi tempi, a torto, secondari o appartenenti al passato. L’aprirsi del sipario è l’ultimo atto di una elaborazione lunga e collettiva tanto è vero che un tempo si parlava in genericamente di “lavoratori dello spettacolo” e di “maestranze”. Al critico teatrale si chiede non di esaltare il singolo interprete o l’insieme degli attori ma di saper leggere la rappresentazione anche dietro le quinte, di valutare l’opera dei maestri artigiani delle scene, delle luci, dell’autore del testo, dei suoni e degli effetti speciali, del lavoro della regia, proprio per fornire strumenti raffinati e concreti al lavoro dello spettatore.

Proprio di questo universo teatrale fanno parte a pieno titolo il pubblico e il recensore. Certo non sono più i tempi dei Palchetti romani di Giorgio Prosperi, che nel corso degli anni consegnò al ruolo di critico un prestigio e una influenza mai raggiunte in precedenza, e il lettore ideale di chi scrive di teatro ormai è quasi sempre l’interprete o il regista. Il libro di Banchieri è arricchito anche da aneddoti e spigolature. A questi aggiungo giusto un appunto sugli esordi di Giorgio Prosperi nel racconto del figlio Mario, anche lui personalità del teatro. Pare che fu mandato ad assistere alla prima del Nerone di Pietro Mascagni per il semplice motivo che era l’unico in redazione a possedere un frac, quindi l’abbigliamento consono ad una prima. L’allora inesperto e giovane giornalista si avvicinò ai critici di nome per sentire quali erano le considerazioni sul nuovo lavoro del celebre maestro. “Non è stato alla sua altezza”, “Probabilmente è iniziato il suo declino” e si suppone questi siano stati i commenti a caldo che Prosperi raccolse alla fine della rappresentazione.

Ovviamente, forte di quanto sentito dagli esperti del settore, scrisse un pezzo chiaro, diretto e sincero. Il giorno dopo le testate romane erano tutte un elogio per l’opera magnifica del maestro senza ombra di dubbio. Solo l’articolo del giovane Prosperi era dissonante. La narrazione ufficiale dice che fu consigliato di andare a porgere le sue scuse a Mascagni ma sembra piuttosto che fu convocato, quasi di forza, all’Hotel Plaza dal maestro. La spiegazione che offrì fu chiara, diretta e sincera come il suo articolo: le sue sensazioni e il commento dei colleghi. L’autore di Cavalleria Rusticana tra il serio e il compiaciuto rispose con un perentorio invito al rispetto che si doveva a cotanto compositore ma, da grande persona qual era, ammise che davvero nemmeno lui era contento del risultato dell’opera. Forse da qui nacque la ferma convinzione che il coraggio di dire la verità in un articolo, per quanto possa essere personale, è l’unica chiave per essere credibile agli occhi del pubblico.

Dopo avere avuto qualche re, un Duce, una Prima e una Seconda Repubblica, l’inchiostro e il toner speso da chi racconta il teatro ha avuto quotazioni diverse a seconda della sempre crescente influenza della politica. Dagli anni Settanta abbiamo avuto una sinistra che era critica con se stessa e con la sua dipendenza sovietica; un mondo liberale che faceva i conti con le quattro guerre civili per la nascita di una Italia laica e la fine, nel 1922, della propria indipendenza dall’ex Regno Pontificio; con un destra che cercava di difendere e aggiornare la lettura di un’epoca creata e guidata dal direttore di un quotidiano socialista e cercando magari di identificare l’idea di corporazione con quella di cooperativa; un centro che si chiedeva quanto fosse coerente il proprio impegno rispetto ai valori del mondo cattolico. Questo ha generato una competizione e un conflitto sul terreno intellettuale prima ancora che politico.

La malattia infantile, per dirla con Lenin, dell’estremismo non è stata che una piccola parte, drammatica e violenta, del confronto tra le diverse posizioni. Cretini, eroi e affaristi senza scrupoli ce ne sono sempre stati. Oggi però il vero pericolo è la banalizzazione, la semplificazione o, se il termine esiste, l’elementarizzazione del pensiero sociale, ideologico e religioso, che carpisce la buona fede e l’ingenuità soprattutto dei nostri ragazzi. L’insieme delle grida social e televisive si ridurre freddamente a individuare buoni e cattivi, a scegliere quali statue abbattere e quali fare più grandi, ad esaltare immagini di dolore magari su qualche murales metropolitano e a tacere il lavoro continuo della ricerca, dalla scienza alla filosofia, dall’arte alla medicina, verso il vero sviluppo sostenibile.

I buonisti sono già pronti a bruciare in piazza libri e bandiere e, ancor più grave, non ha bisogno di confrontarsi con le testate giornalistiche non allineate e non sottomesse alle tendenze del momento, di quello che correntemente viene segnalato come pensiero unico, e di conseguenza vedono come un pericolo, un ostacolo, e vengono messi al di là della trincea tutti quelli che si permettono ancora di scrivere solo dopo aver pensato. Magari mi sbaglio e spero che sia così, forse è solo una sensazione o un momento di sconforto di fronte a tante banalità, ma questa, e lo dico in modo chiaro, diretto e sincero, è la mia opinione.


di Quintino Di Marco