giovedì 5 maggio 2022
In un’epoca in cui, morta la poesia, si fa la prosa in versi, spezzettando le righe e mettendole al centro della pagina per dare l’impressione che si tratti di versi, in queste pagine io ho fatto il contrario: ho messo i versi in prosa, ma il ritmo e l’armonia risuonano lo stesso.
Stamattina al risveglio, come al solito, mi son venuti in mente alcuni versi, improvvisi, spontanei, ma non miei. Non sapevo che data fosse oggi, perché il tempo per me più non esiste. Dal mattino alla sera passo i giorni seduto al mio computer, trascrivendo qualunque cosa che mi viene in mente. Ho novantasei anni: che cos’altro potrei fare se sono uno scrittore? Questo mi resta ormai, oltre ai malanni che affliggono il mio corpo e m’impediscono di camminare. I versi erano quelli del noto Cinque maggio di Alessandro Manzoni. Visto che anch’io, se non i vari Stati, ho attraversato tutto lo Stivale, dall’Alpi al Capo Passero, in Sicilia, risiedendo in ben dodici città, in quanto il padre mio, Grande ufficiale della Milizia ogni anno si spostava da una regione all’altra, a un certo punto mi sono detto: “Faccio una parafrasi, ricordando così l’anniversario della morte del grande imperatore”.
Io fui. Non son più quello ch’ero una volta. Adesso, anche se il mio cervello ferve e la lingua è sciolta, con il mio corpo immobile, quasi senza respiro, seduto me ne sto dal mattino alla sera davanti al mio computer, intento a scriver versi, né so se un altro simile a me, sull’orma mia, la stessa cosa fa. Me sfolgorante in fogli di versi eletti e nobili vide la gente, e piacque la mia poesia, tant’è che scrissi un inno al Duce per la proclamazione dell’Impero, a dieci anni, dopo averlo sentito, vestito da balilla, davanti al suo fatidico balcone. Ricevuti quei versi da mio padre, lui mi volle conoscere e mi strinse la mano.
Dall’Alpi al Capo Passero, dall’Adige al Siméto, dovunque il verso mio correva come un fulmine, che fosse triste o lieto. Fu vera gloria? Questa non è l’età capace d’una risposta onesta, dunque saranno i posteri a dar l’ardua sentenza. Ma nel frattempo io chino la fronte al Massimo Fattor che volle in me del creator suo spirito sì vasta orma stampar. La procellosa e trepida gioia di un gran disegno ch’io m’ebbi in ogni campo, anche nel tiro a segno, che saltai ben tre classi, conquistando dei premi ch’era follia sperar, tutto provai. Finché anche per me non giunsero la sconfitta e la fuga con tutta la famiglia sino a Reggio Calabria, in un esilio triste di miseria e di stenti. Vanamente mia madre aveva chiesto a un noto cardinale di Bergamo un suo lasciapassare per sottrarsi alle stragi dei partigiani: il prete (Bernareggi era il nome) alla fine le disse: “L’avete fatto il male? Bene, adesso pagate!”. E così pure io, come Napoleone, dall’altare alla polvere caddi con tutti gli altri.
Come sul capo al naufrago l’onda si avvolge e pesa, nella mia mente il cumulo delle memorie scese. Oh quante volte ai posteri narrar me stesso impresi e sulle bianche pagine cadde la stanca mano! E quante volte, al tacito morir d’un giorno inerte, chinati gli occhi a terra, le braccia al sen conserte, mi assalsero i ricordi di un passato felice! E ripensai le nobili ed eroiche origini della famiglia, i triboli da lei sofferti, il cruccio di mio padre “epurato”, condannato a raccogliere residuati bellici per la pietà magnanima di una ditta privata. Di fronte a tanto strazio più non resse lo spirito e disperai. Ma poi fondai nella mia casa, una villa isolata con un giardino intorno, un circolo, un cenacolo di giovani poeti e di artisti, fra i quali c’era Oreste Lionello. Scrissi i miei primi articoli su due grandi giornali, nei quali deploravo la lotta di due popoli l’un contro l’altro armato, e anch’io sì come un arbitro mi posi in mezzo a loro. Il mio scopo era quello di conciliare gli animi, come sempre discordi.
Il primo poemetto, che pubblicai laggiù all’età di vent’anni, fu La Virtù, un invito al popolo italiano pieno d’odio e rancore. Quei versi ebbero “il plauso delle menti più elette di Calabria e d’Italia”. Un poeta mi scrisse: “La bella Musa, ahimè, piange e sospira perché tra i vivi più non ha ricetto, perché sente il vibrar della sua lira solo il tuo petto. Noi non abbiam la forza del tuo canto ch’empie di strazio il cielo degli eroi, che solca le tue ciglia di rimpianto: siam vili, noi”.
Infine, quale manna piovutami dal cielo, conobbi una fanciulla, che in più spirabil aere pietosa mi portò. E mi avviò per le floride strade della speranza, al meritato premio che i desideri avanza, dov’è silenzio e tenebre il male del passato. Ora mi dico: “Ascolta, continua ancora a scrivere, fa’ che da tanta altezza franca dalla tua mente discenda la parola”. Bella, immortal, benefica Fama ai trionfi avvezza, fra le menti più elette, spargi la mia parola. Quel Dio che in me resuscita la grande Poesia, quando verrà il fatidico giorno della mia fine sull’affollata coltrice accanto a me sarà.
Stamattina al risveglio, come al solito,
mi son venuti in mente alcuni versi,
improvvisi, spontanei, ma non miei.
Non sapevo che data fosse oggi,
perché il tempo per me più non esiste.
Dal mattino alla sera passo i giorni
seduto al mio computer, trascrivendo
qualunque cosa che mi viene in mente.
Ho novantasei anni: che cos’altro
potrei fare se sono uno scrittore?
Questo mi resta ormai, oltre ai malanni
che affliggono il mio corpo e m’impediscono
di camminare. I versi erano quelli
del noto Cinque maggio di Manzoni.
Visto che anch’io, se non i vari Stati,
ho attraversato tutto lo Stivale,
dall’Alpi al Capo Passero, in Sicilia,
risiedendo in ben dodici città,
in quanto il padre mio, Grande Ufficiale
della Milizia ogni anno si spostava
da una regione all’altra, a un certo punto
mi sono detto: “Faccio una parafrasi,
ricordando così l’anniversario
della morte del grande imperatore”.
Io fui. Non son più quello
ch’ero una volta. Adesso,
anche se il mio cervello
ferve e la lingua è sciolta,
con il mio corpo immobile
quasi senza respiro,
seduto me ne sto
davanti al mio computer,
intento a scriver versi,
né so se un altro simile
a me, sull’orma mia,
lo stesso un dì farà.
Me sfolgorante in fogli
di versi eletti e nobili
nel corso del Ventennio
vide la gente, e piacque
la mia poesia, tant’è
che a soli dieci anni
scrissi dei versi al Duce,
dopo averne ascoltato,
vestito da balilla,
l’annuncio dell’Impero
davanti al suo fatidico
balcone. Ricevuti
da mio padre quei versi,
lui mi volle conoscere
e mi strinse la mano.
Dall’Alpi al Capo Passero,
dall’Adige al Siméto,
dovunque il verso mio
correva come un fulmine,
che fosse triste o lieto.
Fu vera gloria? Questa
non è l’età capace
d’una risposta onesta,
dunque saranno i posteri
che potranno emanare
l’ardua sentenza. Io
chino la fronte al Massimo
Fattor che volle in me
del creator suo spirito
sì vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
gioia di un gran disegno
ch’io m’ebbi in ogni campo,
anche nel tiro a segno,
che saltai ben tre classi,
conquistando dei premi
ch’era follia sperar,
tutto provai. Finché
anche per me non giunsero
la sconfitta e la fuga
con tutta la famiglia
sino a Reggio Calabria,
in un esilio triste
di miseria e di stenti.
Vanamente mia madre
aveva chiesto a un noto
cardinale di Bergamo
un suo lasciapassare
per sottrarsi alle stragi
dei partigiani: il prete
(Bernareggi era il nome)
alla fine le disse:
“L’avete fatto il male?
Bene, adesso pagate!”.
E così pure io,
coi miei dieci fratelli,
come Napoleone,
dall’altare alla polvere
caddi con tutti gli altri.
Come sul capo al naufrago
l’onda si avvolge e pesa,
nella mia mente il cumulo
delle memorie scese.
Oh quante volte ai posteri
narrar me stesso impresi
e sulle bianche pagine
cadde la stanca mano!
E quante volte, al tacito
morir d’un giorno inerte,
chinati gli occhi a terra,
le braccia al sen conserte,
mi assalsero i ricordi
di un passato felice!
E ripensai le nobili
ed eroiche origini
della famiglia, i triboli
da lei sofferti, il cruccio
di mio padre “epurato”,
condannato a raccogliere
residuati bellici
per la pietà magnanima
di una ditta privata.
Di fronte a tanto strazio
più non resse lo spirito
e disperai. Ma poi
fondai nella mia casa,
una villa isolata
con un giardino intorno,
un circolo, un cenacolo
di giovani poeti
e di artisti, fra i quali
c’era Oreste Lionello.
Scrissi i miei primi articoli
su due grandi giornali,
nei quali deploravo
la lotta di due popoli
l’un contro l’altro armato,
e anch’io sì come un arbitro
mi posi in mezzo a loro.
Il mio scopo era quello
di conciliare gli animi,
come sempre discordi.
Il primo poemetto,
che pubblicai laggiù
all’età di vent’anni
fu La Virtù, un invito
al popolo italiano
pieno d’odio e rancore.
Quei versi ebbero “il plauso
delle menti più elette
di Calabria e d’Italia”.
Un poeta mi scrisse:
“La bella Musa, ahimè,
piange e sospira in quanto
tra noi non ha ricetto,
perché sente il vibrare
della sua dolce lira
soltanto nel tuo petto.
Noi non abbiamo, infatti,
la forza del tuo canto
ch’empie di strazio il cielo
dei nostri eroi, che bagna
gli occhi tuoi di rimpianto,
perché siam vili, noi”.
Infine, quale manna
piovutami dal cielo,
conobbi una fanciulla,
che in più spirabil aere
pietosa mi portò.
E mi avviò per le floride
strade della speranza,
al meritato premio
che i desideri avanza.
Bella, immortal, benefica
Fama ai trionfi avvezza,
fra le menti più elette,
in mezzo a tanta tenebra
spargi la mia parola.
Quel Dio che in me resuscita
la grande Poesia
quando verrà il fatidico
giorno della mia fine
sull’affollata coltrice
accanto a me sarà.
(*) La foto in alto è una riproduzione del dipinto “La battaglia delle Piramidi” di Antoine-Jean Gros (1810).
(**) Nella foto in basso sono ritratti, da sinistra a destra, Arturo Diaconale e Mario Scaffidi Abbate.
di Mario Scaffidi Abbate