“The Woman King”: quando la guerra è donna

Chi furono i primi mercanti di schiavi dall’Africa? Gli africani stessi, dato che nel Continente nero lo schiavismo era considerato una pratica del tutto normale già dall’epoca delle invasioni arabe del VII secolo. Di questo e di molto altro ci parla il film spettacolare, basato su fatti storici realmente accaduti, The Woman King (da oggi nelle sale italiane), per la regia di Gina Prince-Bythewood e con interpreti principali Viola Davis (Nanisca, la Donna Re), Thuso Mbedu (Nawi), Lashana Lynch (Izogie), Sheila Atim (Amenza), John Boyega (King Ghezo), Hero Fiennes Tiffin (Santo Ferreira).

La storia vera riguarda la falange reale delle donne-guerriero, le Agoije, considerate delle semidivinità (al loro passaggio la popolazione chinava la testa e fissava lo sguardo a terra riconoscendone l’assoluto privilegio di status) nel loro ruolo esclusivo di guardie pretoriane del trono, incaricate di proteggere il Regno africano di Dahomey con un’abilità e una ferocia senza precedenti nella storia. Come tali, essendo dedicate alla difesa della persona del re, le guerriere erano ammesse all’interno del palazzo reale, dove svolgevano i propri riti, si addestravano al combattimento e formavano le reclute loro affidate.

Il giuramento era quello dell’assoluta fedeltà al re e della verginità (aspetto quest’ultimo che le rendeva particolarmente pregiate come prede di guerra, da stuprare e violentare a ripetizione, come proprio accadrà al generale Nanisca!), che le rendeva per così dire protette dagli dei e invulnerabili nello spirito. La straordinaria bellezza delle immagini rende i loro corpi in primo piano giganteschi e statuari, soprattutto nelle movimentate scene di battaglia contro gli uomini feroci e spietati delle tribù nemiche.

Ovviamente, come in tutti i racconti epici sul tipo delle Termopili, la rappresentazione e i dialoghi sono a molteplici livelli, sotto il profilo storico, culturale e sociale, e ciascuno di essi non poteva che essere soltanto accennato, in quanto la forza del film sta, appunto, nell’aspetto androgino del guerriero rispetto a quello che fino a poco tempo fa veniva romanticamente considerato come il “sesso debole”, sebbene la tipologia delle amazzoni fosse ben rappresentata e mitizzata già in epoca classica. All’epoca, nel 1823, anche il Dohomey era nel giro dei Paesi africani che trafficavano con i coloni bianchi (portoghesi in questo caso), favorendo la tratta degli schiavi che venivano imbarcati nei principali porti dei Paesi confinanti. Come stava già accadendo in America del Nord con la conquista del West, anche in Africa con le navi mercantili europee arrivano barili di alcool e di whisky, destinati a divenire la nuova droga degli autoctoni, rendendoli rapidamente dipendenti perché a corto di enzimi. Una prima finestra di discussione sociopolitica, appena socchiusa e mantenuta tale, riguarda proprio la natura dei “bianchi” schiavisti che si divide esattamente nelle due categorie di sempre dei “buoni” e “cattivi”, come del resto accade in tutte le etnie al mondo.

Tra i primi si annovera nel film un bellissimo uomo, figlio di un bianco e di una donna dahomeini, che accompagna in Africa il suo migliore amico, capitano di una nave negriera e decisamente cattivo, per mantenere la promessa data a sua madre di far visita alla terra natìa di lei. Ed è in una vasca naturale della jungla che incontra e si innamora di Nawi, la protagonista, una recluta Agoije di assoluto valore guerriero, nonostante la sua giovane età.

Poi, a ben altro livello politico, si colloca la figura illuminata di un re africano come Ghezo che, addirittura, sceglie la guerra per metter fine alla tratta degli schiavi nel suo regno. Infine, il livello più intimo ed emotivamente pregnante riguarda gli usi e costumi delle popolazioni locali. Si citano, in particolare, figlie giovanissime date in sposa per bisogno o per contrarre alleanze e rafforzare patrimoni a uomini benestanti molto più anziani di loro; gli interni di una corte africana praticamente identici nel funzionamento a quelli della Roma imperiale, con mogli, concubine ed eunuchi la cui unica occupazione è intessere trame di palazzo per nutrire parossisticamente le proprie ambizioni, ottenendo i favori del re.

L’interna corporis del gineceo delle Agogije, in cui la magia fa da sfondo ai drammi umani del loro generale, mentre tutt’intorno reclute e sergenti di ferro si ricompongono nella fortissima amalgama del gineceo in armi, che nessun uomo potrà mai imitare per la forza dei sentimenti e il carattere solidaristico esclusivo. Poi, infine, si presenta prepotente e onnipresente il concetto tribale del tributo di sangue per il mantenimento della libertà individuale e collettiva, in cui la guerra, anche preventiva, ha sempre uno scopo difensivo e mai imperialista. Atmosfere bellissime, avvolte negli immensi spazi africani e nei colori dipinti sui corpi e sugli abiti che rendono l’Africa un tributo di nostalgia per chi come noi nasce, vive e muore in mezzo al cemento.

Aggiornato il 01 dicembre 2022 alle ore 13:46