“Può un’opera mostrarci l’esatta natura e verità dell’amore?”. Le sfide della poesia. A suo tempo, nell’Inghilterra del Bardo, fu Elisabetta I a lanciare la prova al drammaturgo inglese. Il risultato fu “Giulietta e Romeo”. Oggi la sfida poetica potrebbe rinnovarsi? Qual è diventata la funzione della poesia?

A cercare una risposta, profonda, evocativa ma in punta di penna, è Franco Campegiani. Può la poesia salvare l’uomo e la terra? I versi, tra le grida dei social, le avvisaglie delle intelligenze artificiali, i malesseri e i malanni umani, le perdite di riti e le decadenze di tradizioni, hanno la forza di un grido contro l’Apocalisse?

Classe 1946, poeta, filosofo, critico letterario e d’arte, giurato in premi letterari, Franco Campegiani vive a Marino. Nella campagna dei Castelli Romani, oltre a produrre un vasto repertorio poetico e a promuovere cenacoli, iniziative artistiche ed eventi multimediali, l’autore vive bucoliche parentesi riflessive. Che hanno il tempo dei giorni, delle stagioni, delle coltivazioni, dei raccolti. E qui, nella natura, è nata la sua teoria autocentrica e il suo neo umanesimo. “Coltivare il silenzio”. In questa epoca di grida ed eccessi, Campegiani porta la rivoluzione primordiale e fa decollare l’ottimismo dall’io rivoluzionato.

La sua raccolta di poesie, “Dentro l’uragano” (Pegasus Edition 2021), ha vinto il Premio letterario Internazionale Golden Selection. E trova ripresentazioni, perché – come ha scritto Aldo Onorati nella prefazione – “da essa bisogna ripartire come rilettura, obbligata e consigliabile”, dato che citando Leopardi “le cose più sono belle e profonde e più scoprono bellezza e profondità ad ogni rilettura”. Sabato scorso al Teatro degli Scrittori della Fuis, a Roma, si è svolta una presentazione moderata da Salvatore Rondello con Sandro Angelucci, Sonia Giovannetti e la partecipazione dell’attore Massimo Chiacchiararelli, che ha letto alcuni brani.

Nelle precedenti pubblicazioni (“L’ala e la gruccia”, “Punto e a capo”, “Selvaggio pallido”, “Cielo amico”, “Canti tellurici”, “Ver sacrum”) l’autore si era spinto con spirito sagace alla ricerca dell’armonia e della verità. In “Dentro l’uragano” invece, Franco, è particolarmente illuminato dal fuoco della sacralità. Quale?

L’opera si apre con “Lettera a Pier Paolo”, in cui Campegiani cita i versi della poesia di Pasolini “10 giugno (1962)”, laddove recitano: “Io sono una forza del passato/Solo nella tradizione è mio amore...”. Per il poeta friulano essere una forza del passato significava percepire la parte più vitale della Memoria, sede dei nostri Ricordi e dei nostri Conflitti. “Non aver capito il proprio passato significa riviverlo” dice infatti il celebre motto pasoliniano. “Caro Pier Paolo, tutto piano piano/si è corrotto nella storia,/ed ora che sono svanite per sempre/le pale di vigna e d’altare,/ora che il popolo è scomparso/insieme ai ragli e ai muggiti, /e insieme al letame/ e ai ritornelli di grilli e rane/ora si è spenta la terra/ e la donna non è più con noi”.

Nell’ode Campegiani constata che “si è disseccato il fiume del sacro primordiale”. Come peraltro ha esplorato nei suoi saggi filosofici: “La teoria autocentrica” (Armando Editore) e “Ribaltamenti” (Edizioni Davis and Matthaus). È caduta la religiosità. E “l’uomo odierno è piuttosto come l’uomo del mito di Platone, incatenato alla caverna”, ha fatto notare Sonia Giovannetti, poeta, saggista e critica letteraria. Ma l’intuizione cosmica dell’autore marinese è che la vita è eterno incedere degli opposti, tutto è sempre positivo e negativo, ordine e caos sono la legge suprema dei contrari. “Non dobbiamo ripiegare nel passato, la metafisica è qui – ha spiegato Campegiani –. L’uomo può costruire o distruggere, ma può costruire o distruggere solo se stesso”. Qui si spalanca l’universo del poeta, colto in quella Natura eterna, madre, terra, partoriente, violenta a volte, feconda, la cui infinità supera l’umano e dunque chi accoglie di coincidere coi tempi e i luoghi naturali nasce, muore e risorge. Ogni giorno, ogni ora, ogni notte, ogni alba. Ogni pesante o lunga era. “Puntuale e copiosa, mia terra,/nell’ossequio sacrale elargisci/ le tue messi a me contadino”, scrive in “Non avere pietà”. “Luminosa dea, non avere pietà/ tu che azzurra in eterno vivrai”. Attenti, sembra dirci Campegiani, l’uomo si aggroviglia, patisce e versa, ma la culla a cui appartiene sprigiona un’eternità che lo comprende.

La raccolta non ignora l’apicale strazio contemporaneo, ma il bucolico e sereno Franco, l’uomo dentro che scruta e osserva, registra che “il male d’oggi è chiuso in un recinto/ di plastificate muraglie,/ ghetto refrattario in una cupola/ agli spiragli di luce”, ma “scomparsi dentro voi stessi,/entro il dolore dei grigi e muti lucori/, da lì forse vi coglierà il mistero/mutando l’estrema solitudine/ in improvvisa compagnia./ E s’aprirà di nuovo il cuore/ allo scrosciare dei cieli,/ al tuono fragoroso dei concerti universali”.

Qualcosa muore, certo. Più di qualcosa. Quello che è tempo finito, come faceva notare Natale Antonio Rossi, presidente di Fuis, è la dimensione sociale agricola. La gente dei campi e la letteratura dei campi. “Termini come bura e prece sono scomparsi e l’intelligenza va verso le modalità tecnologiche dell’artificiale”. “Ma il pianeta azzurro non si è mai trasferito in un mondo virtuale – è l’invito a riflettere –. Sì, ci saranno anche esperimenti tali, ma sono le dimensioni sperimentali dell’uomo. Noi stessi siamo la potenza iniziale del Big Bang”. In “Dico a te” scrive l’autore: “Se tutto è in divenire, / il presente temporale non esiste, / non è l’attimo intermedio / tra quel che è stato e quello che verrà, / ma una bolla d’aria indistruttibile che sta dentro gli uragani”. Può dunque la poesia salvare la terra e l’uomo? “Nel breve mi viene da essere pessimista – ha risposto l’autore –. È necessario ritrovare il rispetto e l’impegno come ecologia esistenziale per non estinguerci. Neruda diceva che la speranza ha due figli: lo sdegno e il coraggio. C’è bisogno di entrambi”.

Tra il pubblico, attento ed emozionato, si è levata la voce femminile di Annamaria Ferramosca, l’autrice nota di “Curve di livello” e della teoria delle “parole che deflagrano”, la quale ha lanciato un dubbio. Cosa deve fare la poesia per non lasciare che l’onda apocalittica sommerga tutto, non è il momento anche di un urlo poetico? L’estimatrice e collega di versi ha stimolato il Campegiani pensatore. “Un grido? La poesia lo è sempre. Coalizioni di poeti, cenacoli come ne faccio, invasioni forti nel frastuono della comunicazione sono importanti”. Certo, non è il momento dei ripiegamenti isolati, dei pessimismi. Scrive il cantore dell’ordine universale: “Ma quanto reggeranno le colonne/ di verde cipollino antico,/la prigione ove s’ingabbia/questa vicenda della boria umana?”. Risponde il verso: “Oggi si torna a capo./Rinasce primavera tra le crepe/ di queste tombe/che l’inverno ha fracassato. (...) Fedeli al Ver sacrum, ci cresceranno le ali e chissà/se saremo all’altezza dell’amore”.

La poesia, sembra dirci Campegiani, ha una funzione catartica e salvifica. Urlo corale? Se vogliamo. I versi sono nelle pagine, sta a noi portarli nell’aria.

Aggiornato il 23 febbraio 2023 alle ore 09:04