“Grazie ragazzi”: se poi arriva Godot

mercoledì 22 febbraio 2023


Aspettando Godot, nella versione di Grazie ragazzi, è il nuovo film di Riccardo Milani, remake del film francese Un Triomphe, a sua volta ispirato al docufilm di Michka Saäl, Les Prisonniers de Beckett. Prigionieri, cioè, in un carcere di massima sicurezza che, seguendo un programma di riabilitazione avente per oggetto un breve corso di teatro, condotto da Antonio, un ex attore fallito (Antonio Albanese), si scoprono attori ispirati (tutti con motivazioni profonde e diverse, legate agli affetti smarriti) in grado di portare in scena in molte città del Paese il capolavoro del Teatro dell’assurdo di Samuel Beckett. Nel film, il narrato e il narrante sono entità inseparabili di un identico inviluppo della condizione umana, in cui il narrato è l’Io perduto. Ovvero, ciò che si è smarrito di sé e che, dopo una vita sbagliata, ha prodotto il delitto e il carcere. Il narrante è l’Io perdente, colui che è in carcere e che soltanto dietro la messa in scena del suo dramma esistenziale intuisce il luogo lontano dove si colloca il suo Io perduto. Il mezzo che unisce l’uno all’altro è il teatro. Ovvero, quello spettacolo dal vivo dove in scena c’è l’Io perdente che aspetta come Godot il ritorno dell’Io perduto e lo fa rivivere attraverso l’atto e il gesto artistico. Ecco: questa è un po’ la filosofia che sottende la storia del film, ironica quanto impegnata. 

Go-dot (“Go” vai; “Dot” stai fermo) è la migliore metafora del carcerato che vive nell’attesa della libertà (che sembra non arrivare mai nel caso delle condanne lunghe), dopo aver pagato il suo conto alla giustizia, scontando la pena nel limbo temporale scandito dai regolamenti carcerari e dalle sue sequenze, sempre uguali e monotone, di sveglia, pulizia, ora d’aria, pasti cadenzati; riposo notturno più o meno vegliato da ricordi, rimorsi e ossessioni; colloqui con parenti e avvocati; liti futili tra carcerati per movimentare la noia dell’attesa. In fondo, il carcere è una macchina che deve girare sempre allo stesso modo, al fine di evitare l’anarchia e guai ancora peggiori derivanti dall’eccesso di individualismo e di aggressività. Prigionieri dietro le sbarre non sono solo quelli con il pigiama a strisce (metaforicamente parlando), ma anche donne e uomini in divisa o in abiti civili, come la brava e illuminata direttrice del carcere (Sonia Bergamasco, perfetta nella parte), che rischia moltissimo in proprio per realizzare i sogni di un gruppo di carcerati-attori. Perché, come dice un noto verso di una famosa canzone: “Dal letame nascono i fior”, anche se ci vuole una terra buona per farlo accadere.

Il profilo inquietante dell’edificio carcerario in penombra è simbolizzato dall’albero solitario e immobile di Aspettando Godot; e le foglie che cadono sono gli anni che passano e l’età che invecchia, mentre tutti e quattro gli attori sono saldati l’uno all’altro nei reciproci destini, come tanti soldatini di piombo in fila per uno. L’aspetto fondante è però un altro, e riguarda l’addomesticamento del selvaggio ruvido e violento che è in noi, grazie alla salvezza mediata dalla doppia funzione del maestro-regista (il ragno paziente che tesse la tela per tenere assieme un collettivo riottoso e turbolento), cui si assomma lo spazio magico del palcoscenico. Catarticamente, il balbuziente mostra al termine del percorso formativo una dizione fluente; e l’emigrato ferito dal gesto razzista dimentica la sua diversità supposta, fondendosi nello spirito di gruppo, dove non contano l’etnia e la religione ma solo saper cantare in coro la stessa, identica melodia della vita, fatta di lunghissime, infinite attese sospese. Laddove, cioè, il cane umano di Beckett diviene il vero padrone del suo tirannico accompagnatore che il destino acceca; mentre i due personaggi principali di Godot, Vladimiro ed Estragone, rimarranno divisi ma uniti, cenciosi ma nobili, recitando come in un Uroboro il mantra: “Well. We shall go?”, “Yes. Let’s go”. Ma: “They dont move”!

Ed ecco l’assurdo: l’azione si dissocia dalla parola che non riproduce più la volontà individuale, spezzando il legame che lega la prima e all’azione: come accade a due carcerati, confinati nello stesso scenario per un tempo che sembra non finire mai, in cui le volontà sono annullate dall’ostilità e dall’impenetrabilità dei corpi di quattro pareti insormontabili. Si passa così dall’assaporare il sapore dell’Io perduto (identico all’aria che si respira a pieni polmoni fuori dal carcere, durante i trasferimenti della compagnia in tournée in diverse città), per poi tornare all’indietro passando per le forche caudine del ritorno, con le perquisizioni corporali di routine al momento del rientro in carcere. Momenti antimagici, questi ultimi, che arrivano a spogliare qualsiasi ricordo simbolico abbia accompagnato i loro personaggi in trasferta: un peluche; un pacco di biscotti appena iniziato; altri oggetti inutili simbolo di libertà. E sarà quest’ultima a vincere per un fugace attimo, rientrando poi, accompagnata dal suono delle sirene, là da dove aveva cercato di fuggire.


di Maurizio Bonanni