“Uomo e galantuomo”: lezione napoletana

lunedì 27 febbraio 2023


Che cos’è, dunque il teatro di derivazione scarpettiana, come quello del giovane attore-autore Eduardo De Filippo, figlio naturale di Eduardo Scarpetta, così come rappresentato nella sua commedia Uomo e galantuomo? Per inciso, ambientazioni e recitativo dello spettacolo eduardiano omonimo dell’epoca sono stati rivitalizzati da Geppy e Lorenzo Gleijeses (attualmente in scena al Teatro Quirino fino al 5 marzo), in base ai canoni dei primi decenni del Novecento. Si potrebbe rispondere alla domanda precedente osservando che, anche se la tradizione è un vettore lessicale e comportamentale per ribadire la necessità e l’efficacia di un agire storico (Scarpetta-De Filippo e la generazione prima di loro, appunto), proprio per questo deve essere costantemente reinventata dai soggetti protagonisti, per esorcizzare il rischio sempre presente di divenire una forma cristallizzata e, quindi, priva o povera in modo inaccettabile della spontaneità dell’improvvisazione. Così, si può stare certi, che nessuna replica dello spettacolo dei Gleijeses sarà uguale a una precedente o successiva.

Nella scena accadono “cose” che il copione fa fatica a tenere in un assieme coeso, per cui accade che, magari, la contorsione lessicale del suggeritore, che non tiene conto né delle pause, né delle virgole, né dell’attribuzione delle battute ai diversi personaggi, sia ripetuta al parossismo naufragando in un voluto, incontenibile riso da parte del pubblico. Ecco, questa è una raffinata abilità del modello Scarpetta-Eduardo: non aver nulla da dire nei dialoghi destrutturati (in cui, ad esempio, il costrutto “impegnato” pirandelliano è del tutto assente dalla scena e dal testo), per far parlare la gestualità dei “pupi” e delle maschere fattesi persone in carne e ossa, uscendo così dalle raffigurazioni colorate dei libri d’arte.

Inutile chiedere ai Gleijeses “Ma perché agite così?”: vi risponderanno “Perché così si fa!”. Ma anche la storia di Uomo e galantuomo è una sorta di miscela de Il cappello a sonagli, in cui qui si invertono i generi, dato che il matto lo fa “Lui”, Alberto (De Stefano/Lorenzo Gleijeses), l’amante di lei, per evitare lo scandalo e le revolverate del marito tradito. Il tutto rafforzato da inserti da commedia napoletana, in cui le “corna” hanno sia la funzione di amuleto che di ineluttabilità, quando come la Mandragola si è un po’ tanto più anziani della propria moglie e, per di più, anche fedifraghi a propria volta! Quindi, in questo caso il tradimento di “Lei”, sempre fedele nei secoli, è equiparabile a una “giusta” vendetta. E chi la deve amministrare questa vendetta, sia per lui, il marito, che per lei, la moglie, entrambi fedifraghi confessi? Ma, ovviamente, “Er Sor Delegato” di polizia, tanto tronfio quanto sorprendentemente ingenuo, che crede di aver capito arrestando il colpevole, per trovarsi, a seguito di molteplici ribaltamenti di campo, nella più splendida confusione, prerogativa degli ottusi burocraticamente corretti.

E, per capire sino in fondo la sostanza di una forma fluida del teatro popolare come quello napoletano, si potrebbe dire con Claude Lévi-Strauss che la tradizione si avvale di “tramiti materiali” (gli attori scarpettiani, in questo caso), nel senso che etnologicamente: “Non é possibile studiare gli dèi ignorando le loro immagini, né i riti senza analizzare gli oggetti e le sostanze che l’officiante fabbrica o manipola; né le regole sociali, indipendentemente dalle cose che loro corrispondono”. Ecco, benché non semplicissimo, tutto questo vale per Uomo e galantuomo, ad alta densità di significati socioeconomici, come il “guittismo” di un teatro povero che non riesce a mettere assieme il pranzo con la cena, esattamente come gran parte del sottoproletariato urbano della Napoli a cavallo dei due secoli, affollata di persone povere cariche di passione, umanità, voglia di vivere ed esilarante umorismo. Così come corrispondenze molto importanti sono quelle tra una società maggioritaria di pezzenti, da una parte, e dall’altra di una componente assolutamente minoritaria di nobili decaduti, di cui i più fortunati hanno la possibilità di condurre una vita di rendita, grazie alle proprietà di famiglia. E, poi, c’è la presenza sempre poco gradita, temuta e ingombrante del “Potere”, cui i miserabili si rivolgono con apparente rispetto e sostanziale disprezzo; mentre i potenti se ne avvalgono ora come manganello per la plebe, ora per i propri fini più o meno legittimi. Questo e molto altro si nasconde dietro l’apparente futilità di Uomo e galantuomo.


di Maurizio Bonanni