Festen, travolti dall’ipocrisia

Che cos’è, più comodo? Togliere i veli all’Essere, o adagiarsi comodamente sulla quotidianità ipocrita del “Non Essere”? La risposta non può che venire da una verifica statistica sugli effetti catastrofici del primo modo di fare, quando si mette a nudo la realtà, in base a un “Interno di Famiglia” del tutto particolare, in cui una coppia di figli, Linda e Christian, è regolarmente abusata dal padre con la complicità della madre. Non ci vuole Freud per capire come una cosa del genere resti calcificata nei ricordi, nelle ansie, negli incubi e nei comportamenti devianti di quegli adolescenti poi diventati adulti. Fino a spingere Linda al suicidio per separarsi definitivamente dai fantasmi della sua terribile infanzia. Nelle due coppie di figli, Michael (Elio D’Alessandro), Helene (Roberta Lanave), Linda e Christian (Raffaele Musella), gemelli questi ultimi due, con Linda che viene regolarmente violentata assieme a suo fratello più grande da suo padre (che si faceva sempre il bagno prima di procedere a questo rituale orribile), quale legame voi credete che si sviluppi tra queste povere creature abusate? Pensate che nelle loro rispettive psiche di violentati l’incesto sia un tabù o moneta corrente? E tutto ciò, mentre una madre-chioccia con le grate sugli occhi si alleva amorevolmente gli altri due figli, Michael ed Helene, per sottrarli alle mire del marito-padre e Orco? A questo punto, come dite voi che funzioni il disvelamento da parte del figlio più grande di questa follia famigliare, in un contesto del tutto improprio come la grande festa (Festen, dei danesi dell’alta borghesia, i Klingenfeld) per i sessanta anni del padre-padrone violentatore?

Secondo Voi, c’è qualcuno, famigliare o estraneo che sarà in grado, nel ghiaccio sidereo della rivelazione avvenuta, di rimanere fuori da questo terremoto psichico-emotivo? Basterà annegare il tutto nella futilità del “trenino”, del pranzo luculliano, delle scemenze di un animatore e dei coretti un po’ ebbri alla Copacabana, per uscirne fuori, grazie al muro di gomma della più ottusa delle mondanità? Una lunga premessa (e promessa) per dire che tutti questi temi, situazioni, drammi triturati fino ai loro atomi, saranno messi in scena alla Sala Umberto (fino al 5 marzo) con lo spettacolo “Festen”. Il tutto, all’interno di una recitazione corale che funziona come un perfetto e rodato meccanismo a orologeria di sequenze e apparizioni, a opera di una bravissima compagnia di attori, per lo più giovani, tranne l’attrice che interpreta la madre e uno straordinario Danilo Nigrelli nella parte di Helge, il patriarca. Tragica la sua maschera che degrada dal sorriso stampato da copertina Vogue per l’occasione, a un ghigno di sofferenza acuta, di colui che, credendosi padrone del mondo, non sa chiedere scusa, né assumersi alcuna responsabilità per aver distrutto consapevolmente quelle esistenze in fiore di due dei suoi figli. Ma sarà la vendetta anche fisica, al momento in cui verrà ritrovata fortunosamente e letta in pubblico l’ultima lettera scritta da Linda a uno dei suoi fratelli, che Helge cadrà vittima di se stesso all’interno del moto a spirale generato dalla sua stessa macina, come accadde al peccatore del Vangelo che dette scandalo nella sua vita mortale.

Ma qui, francamente, il divino è del tutto assente, completamente surrogato dalle follie e dai vizi dell’umano, che vengono impetuosamente cavalcati attraverso una tecnica rappresentativa originale. La regia di Marco Lorenzi infatti crea un potente mix tra teatro e effetti cinematografici “mega-mirror” che, per l’occasione, proiettano in primissimo piano, magnificandoli all’eccesso, i volti degli attori, fino a invadere la platea con le loro immagini.

Nella scenografia infatti la Quarta Parete è interamente velata con un telo posizionato al limite esterno del boccascena, e sono gli stessi attori-interpreti a manovrare e riprendere con una video camera senza fili l’azione in diretta che si svolge più all’interno nel palcoscenico. Se però è vero che questo artificio opera come un vero e proprio amplificatore della drammaticità della dizione e della postura del volto degli attori in campo, nondimeno, scendendo di dimensione, si perde per scelta l’aspetto peculiare del teatro dal vivo, che è poi quello di uno spazio temporale tridimensionale con rapporti “volumetrici” reciproci tra i personaggi in scena. Per attenuare l’effetto-cinema, parte della recitazione avviene con gli attori che danno le spalle al telone o, addirittura, che usano i corridoi della platea per scorrere verso l’impianto teatrale principale, restituendo così il senso al teatro dal vivo. Da non perdere!

(*) Foto di G. Distefano

Aggiornato il 03 marzo 2023 alle ore 20:16