Theodor W. Adorno, Ernest Ansermet e la musica nuova

giovedì 27 luglio 2023


Theodor W. Adorno considera la convinzione che Beethoven sia più comprensibile di Schönberg un “inganno” e pensa che quanti sono scandalizzati dalle dissonanze siano in realtà spaventati da se stessi: è unicamente per questo che le dissonanze riescono loro insopportabili. In Filosofia della musica moderna (Torino, 1969 e 2002, Einaudi editore) il filosofo francofortese, al quale si deve forse più che a ogni altro la giustificazione teorica della musica dodecafonica, equipara coloro che s’indignano dinanzi alla nuova musica a chi tratta il classicismo viennese come un prodotto di consumo qualsiasi, al pari di “ninnoli casalinghi. In realtà un ascolto adeguato di quegli stessi pezzi di cui l’ometto della metropolitana fischietta i temi, esige uno sforzo ancora maggiore che non la musica più avanzata: e cioè quello di togliere di mezzo la vernice di falsa esibizione e di formula reazionaria ristagnate col tempo”.

L’equiparazione da parte di Adorno di quanto di musicale viene ancora oggi, dopo uno o più secoli, ascoltato da molti con grande trasporto a dei “ninnoli casalinghi” ha tuttavia il sapore di un elitarismo mascherato da sortilegio dialettico e non pare esente da una certa arroganza teorica. Quest’impressione può trovare una qualche conferma nel fatto che Adorno fa propria la tesi di Clement Greenberg secondo cui l’arte può essere distinta “in falsità e avanguardia”, dove ciò che s’intende per “avanguardia” viene a coincidere con l’unica possibile via autentica, mentre tutte le altre opzioni vengono relegate a manifestazioni culturali false e reazionarie. Si tratta ovviamente di una tesi estrema e forse in parte provocatoria, ma utile per evidenziare l’essenziale autoreferenzialità della posizione di Adorno, che riduce qualsiasi critica alla nuova musica ad una sostanziale incapacità di comprenderla, quando non a una vera e propria malafede intellettuale.

Ma naturalmente, anche per questa tesi c’è una spiegazione, che Adorno non manca di fornire a più riprese nell’arco del suo saggio, e che Luigi Rognoni, nel suo scritto introduttivo, inquadra nel contesto storico e culturale che gli fa da sfondo. Rognoni sostiene infatti che per poter pervenire a una spiegazione storica del fenomeno della musica nuova questa deve essere letta e interpretata alla luce della “crisi dei linguaggi artistici nella decadenza postromantica che, mettendo l’artista di fronte a forme divenute ormai vuote, lo pone nella necessità di rinnovare gli stessi mezzi espressivi”. Questi, ormai “divenuti storicamente saturi e quindi impraticabili”, devono quindi essere superati, e Rognoni spiega che Adorno tende a considerare la loro fruizione residuale e inerziale solo come “un effetto della decadenza dei rapporti di scambio fra prodotto individuale e consumo sociale, tendenti sempre più al livellamento monopolistico richiesto dalla ratio commerciale dell’industria”.

Ma siamo sicuri che si tratti proprio di mezzi espressivi saturi e quindi impraticabili? E soprattutto, siamo sicuri che la produzione di musica tonale contribuisca al “livellamento monopolistico richiesto dalla ratio commerciale dell’industria”? In realtà, come osserva anche Gianfranco Zaccaro, che non può certo essere annoverato tra gli affossatori della musica d’avanguardia, questa non è affatto più sciolta dal potere rispetto alla musica tonale classica o ad altre avanguardie artistiche del Novecento: se da un lato ci sono infatti le gallerie e i mercanti d’arte in campo musicale ci sono “le istituzione accademiche, le istituzioni concertistiche, i festival, le multinazionali del disco”.

Inoltre, se esistesse davvero nel campo della musica classica questo fenomeno di omologazione verso una ratio commerciale dell’industria, se davvero le cose stessero così, dovrebbe essere riconducibile alla stessa ragione anche il fatto che, resistendo a imperversanti mode musicali commercialmente assai più efficaci, sono oggi ancora molti gli appassionati di musica classica che l’ascoltano spesso e volentieri, mentre non riescono ad ascoltare altrettanto spesso e volentieri quella musica nuova, ormai vecchia, su cui l’industria musicale ha pur investito e confidato. Si può allora ritenere che questo fenomeno, storicamente accertato dopo oltre mezzo secolo dalla pubblicazione di Filosofia della musica moderna, richieda una spiegazione ulteriore, spiegazione che può forse essere trovata nello stesso saggio di Adorno.

Un simile scenario potrebbe infatti derivare da due false premesse da cui partono Adorno e i teorici della musica nuova. La prima è costituita dalla svalutazione del rapporto che la musica intrattiene con ciò che s’intende comunemente per “sentimento”. Tra tutti i rimproveri che i suoi critici muovono alla musica dodecafonica il più diffuso, quello dell’intellettualismo, le imputa infatti di essere una musica che nasce dal cervello, “non nel cuore o nell’orecchio; non sarebbe affatto immaginata nella sua realtà sonora ma solo calcolata sulla carta”. La meschinità di questa posizione è secondo Adorno evidente. Si ragiona come se l’idioma tonale degli ultimi trecentocinquant’anni fosse ‘natura’, e come se fosse andare contro natura il superare ciò che ha ristagnato col tempo; mentre lo stesso fatto di aver ristagnato attesta proprio una pressione sociale. La seconda natura del sistema tonale è un’apparenza formatasi nel corso della storia, e deve la sua dignità al sistema chiuso ed esclusivo alla società basata sullo scambio, la cui dinamica propria tende alla totalità e con la cui fungibilità si accorda pienamente quella di tutti gli elementi tonali.

La musica assoluta, che per Adorno è quella della scuola di Schönberg, ha messo in discussione la possibilità stessa dell’espressione e l’analisi tecnica dimostra “che il momento dell’assurdità è costitutivo della dodecafonia nel senso che l’opera d’arte totale, interamente costruita e quindi coerente in tutto e per tutto, entra in conflitto con la propria idea; e inoltre, in forza dell’assurdità incipiente, viene bandita la compattezza immanente dell’opera”. Anche per questo, Adorno può sostenere che la musica moderna radicale mostra “il disordine sociale invece di farlo volatizzare nell’inganno di un’umanità intesa come già realizzata”. La tecnica integrale della composizione dodecafonica è, cioè, “un tentativo di tenere testa alla realtà e di assorbire quell’angoscia panica a cui corrispose lo Stato integrale. L’inumanità dell’arte deve sopravanzare quella del mondo per amore dell’umano. Le opere d’arte si cimentano con gli enigmi che il mondo organizzato propone per ingoiare gli uomini: “Il mondo è la sfinge, l’artista il suo Edipo accecato e le opere d’arte assomigliano alla saggia risposta che precipita la sfinge nell’abisso”.

Quindi, per Adorno, alla musica avanzata “non resta altro che persistere nel proprio indurimento, senza concessioni a quell’elemento umano che, là dove continua ad esercitare le sue lusinghe, essa riconosce come maschera dell’inumanità. La verità di quella musica appare esaltata in quanto essa smentisce, mediante un’organizzata vuotezza di significato, il senso della società organizzata che essa ripudia, piuttosto che per il fatto di essere di per se stessa capace di un significato positivo”.

Ciò non significa tuttavia che la musica avanzata, la musica assoluta, non sia in grado di conoscere e dar forma al dolore, anzi: “Ciò che la musica radicale conosce è il dolore non trasfigurato dell’uomo, la cui impotenza è aumentata tanto da non permetter più né gioco né apparenza”. In questo dolore trasfigurato non c’è più spazio per sentimenti diversi da quelli che recano testimonianza di una radicale lacerazione, né per brani che evochino qualche forma di gioia o di melanconia.

A questo riguardo, Adorno cita un brano dell’Estetica hegeliana fornendone un’interpretazione funzionale alla sua tesi, ma essenzialmente fuorviante e riduttiva circa il ruolo che il “sentimento” assume, secondo Hegel, nel contesto della produzione e della fruizione dell’opera d’arte musicale. È vero, infatti, che Hegel considera la riflessione che ha per oggetto il sentimento in grado solo di “osservare l’affezione soggettiva e le sue particolarità, invece di immergersi e di approfondirsi nella cosa – cioè nell’opera d’arte – e lasciare perdere la mera soggettività e le sue condizioni particolari”. Ma in realtà Hegel, nel passo della sua Estetica in questione, o quando poche righe prima definisce il sentimento come “l’ottusa ragione indeterminata dello spirito”, si riferisce al sentimento in quanto tale, indipendentemente dalla sua espressione artistica, e cioè in quanto incapace di condizionare alcun contenuto o d’esserne condizionato. Il sentimento come tale è infatti “una forma del tutto vuota dell’affezione soggettiva” e non è il sentimento in quanto tale che dovrebbe interessare una teoria estetica, ma le sue diverse relazioni con i vari tipi di arte.

Citando questo passo, Adorno intenderebbe avvalorare la propria convinzione che la musica non abbia la specifica vocazione a far emergere stati d’animo o sentimenti latenti o virtuali nei suoi creatori, esecutori o ascoltatori, ma sebbene per Hegel l’opera d’arte non debba destare solo sentimenti in generale – che “in tal caso avrebbe questo fine in comune, senza alcuna differenza specifica, con l’oratoria, la storiografia, l’edificazione religiosa” – e li debba invece destare solo in quanto è “bella”, il suo compito principale consiste nel far risuonare “il modo con cui l’Io più intimo è in sé mosso secondo la sua soggettività ed anima ideale”. L’effetto della musica, ciò a cui essa si rivolge, “è l’arte dell’animo che immediatamente si volge all’animo stesso”. Essa deve, cioè, condurre l’interiorità astratta verso la sua diretta particolarizzazione, che è appunto il sentimento. Per questo la musica è in grado di dispiegare ed esprimere tutti i sentimenti particolari, “tutte le sfumature della letizia, della serenità, dello scherzo, del capriccio, dell’allegrezza e del giubilo dell’anima, ed egualmente la gradazione dell’angoscia, dell’accoramento, della tristezza, del pianto, dell’afflizione, del dolore, della nostalgia ecc. ed infine il rispetto, la venerazione, l’amore”, tutti sentimenti che “divengono la sfera peculiare dell’espressione musicale”.

Il processo creativo che contraddistingue la musica, e anche gli effetti che sa produrre in chi l’ascolta, non sono quindi – anche per Hegel, e contrariamente a quanto ritiene Adorno – scorporabili da ciò che s’intende comunemente per sentimento o stato d’animo: semmai, ciò che Hegel sostiene è che la musica dovrebbe, come l’arte in generale, consentire di trascendere i propri sentimenti e i loro contenuti, dando vita a un sentire proprio che è una specifica forma di coscienza di sé: “Lasciando scorrere in suoni passione e fantasia, deve innalzare l’anima al di sopra del sentimento in cui questa s’immerge, deve far librare l’anima al di sopra del suo contenuto, creando così per lei una ragione in cui possa aver luogo indisturbato il ritorno dalla sua immedesimazione e il puro sentire di sé”. La musica infatti ha per Hegel a che fare “non con l’interno come tale, ma con l’interno riempito, il cui contenuto determinato è legato nel modo più stretto con la determinatezza del sentimento”.

Come osserva Ernest Ansermet (Scritti sulla musica, Milano, 1983, Curci edizioni), la musica è espressione dell’uomo inteso come essere etico “proprio a causa delle modalità del sentimento che riesce a illuminare e che sono reperibili proprio all’interno delle sue stesse strutture come trame che ne rivelano la natura: essa è un’espressione dell’etica umana. Tuttavia, come all’interno dell’esperienza musicale, le strutture tonali assumono un significato affettivo, il loro significato etico trascende lo stesso vissuto che può emergere solo da un’attenta analisi”.

Ansermet prende atto che “Adorno considera il sistema tonale un feticcio, intravedendo invece nella musica atonale una rivolta verso la società borghese”: egli riconosce che tale musica “è priva di significato in confronto alla musica tonale ma proprio per questo la ammira”. Viceversa, per Ansermet è proprio l’ordine tonale a rendere “il linguaggio musicale comprensibile, svolgendo la stessa funzione della sintassi nei confronti delle parole, mentre la musica atonale, al contrario, utilizza un linguaggio oscuro e vago, senza sintassi e lasciando spazio per qualsiasi interpretazione”. Non solo il sistema tonale è la condizione indispensabile dell’evidenza di significato del linguaggio musicale, ma non è vero che si fosse raggiunto, già all’inizio del XX secolo, il limite estremo delle sue possibilità espressive, perché c’era uno spazio virtualmente infinito per introdurre innovazioni di tipo diverso.

In realtà, la ricerca di nuovi codici espressivi si è rivelata, all’inizio del secolo scorso, oltre che il frutto di una ricerca intellettualmente coerente e razionalmente motivata anche il sintomo eloquente di una mancanza di fiducia nelle proprie capacità e risorse creative e dell’idea, arbitrariamente storicista e postromantica, che non può esservi alcun genio artistico se non produce delle radicali innovazioni. Ma tra la tonalità e la politonalità, lungo quella linea mobile di confine, c’erano e ci sono possibilità espressive infinite, cui la musica, se non rinnega la sua naturale vocazione a far emergere stati d’animo latenti e performanti nell’uomo, è comunque in grado di dare forma. Essa sa infatti comunicare senza passare dal linguaggio e senza rappresentare un contenuto, ma per far questo non deve rinnegare le regole della sua sintassi tonale.

Chiarito il rapporto che sussiste tra la musica e i nostri stati d’animo, latenti o virtuali, si può dunque passare alla seconda falsa premessa da cui, sulla scia dell’opera, anche teorica, di Schönberg, prende le mosse l’analisi di Adorno: ovvero l’idea che le dodici note siano i costituenti ultimi, i mattoncini o gli atomi fondamentali della composizione musicale. Per comprendere per quali ragioni si può considerare questa come una premessa fuorviante conviene sviluppare un paragone proposto dallo stesso Ansermet: come una serie di lettere non organizzate in parole dotate di un significato non sarebbero in grado di comunicare alcunché in alcuna lingua, a parte forse qualche suggestione epidermica e fugace, analogamente, una serie di note non è di per sé in grado di comunicare niente di riconoscibile. Per comunicare ci vogliono strutture di significanti di suoni e bisogna rispettare una certa sintassi.

A questo proposito, Ansermet ricorda che il letterismo, nato a Parigi per merito di Isidore Isou, consisteva proprio “nel comporre poesie non servendosi di parole o di forme verbali, ma di lettere che si raggruppavano a piacere. Il movimento non ebbe vita lunga, bisogna riconoscerlo! Al contrario, ed è un fatto rimarchevole – precisa Ansermet – questa musica atonale e tutto ciò che ne è derivato si sono imposti all’attenzione del pubblico”, e quanto è accaduto è riconducibile proprio al tentativo, da parte dell’industria musicale, di riuscire a differenziare la propria offerta commerciale proprio in un’epoca in cui la sua riproducibilità tecnica iniziava a far intravedere promettenti scenari per prodotti radicalmente innovativi. In sostanza, se Adorno imputa alla ratio dell’industria musicale le ragioni del successo della musica tonale a scapito della nuova musica, Ansermet, al contrario, imputa all’industria musicale l’eccessiva attenzione che alla nuova musica è stata tributata.

In ogni caso, le possibilità espressive della musica, la sua capacità di rinnovarsi, ci sarebbero state per Ansermet anche senza assecondare i codici compositivi della dodecafonia, e questo perché, quando il processo di formazione delle strutture di una lingua è terminato, “il numero di cose che si possono scrivere con quei moduli linguistici è infinito; è ciò che si è verificato, al di fuori di Vienna, nella generazione di musicisti che hanno lavorato dopo la prima guerra mondiale e che hanno sfruttato a fondo la politonalità. Anche oggi molti compositori che non hanno voluto sottostare all’ideologia schönberghiana prendono questa direzione”. Sarebbe dunque errato credere che “la perpetuazione dell’ordine tonale condanni la musica all’immobilismo”: coloro che sostengono questa tesi non comprendono che tale ordine “risiede soltanto nella capacità di organizzare uno spazio sonoro, sulla base delle scale tonali. Come, quando ci esprimiamo in una particolare lingua, il nostro pensiero deve adattarsi ai suoi schemi sintattici, così non ci si potrebbe muovere all’interno di uno spazio organizzato se non adottandone le strutture organizzatrici”.

Viceversa, per Adorno una simile struttura organizzativa non coincide con la tonalità, che rappresenta per lui ormai solo un ordine apparente e fittizio. La dissoluzione dei caratteri di apparenza nell’opera d’arte era richiesta dalla sua interiore coerenza: ma il processo di dissoluzione imposto dal significato dell’insieme ha reso “l’insieme stesso privo di significato”. Per questo, l’opera d’arte integrale si configura come “l’assurdo assoluto”. La dodecafonia procede, cioè, ad una sorta di atomizzazione dei suoni che mette in luce quella contraddizione fondamentale fra un’arte svincolata e una società vincolata che caratterizza la società capitalistica, e un artista degno di questo nome può solo cercare di “contraddire questa società vincolata con l’arte svincolata, e anche di questo deve quasi disperare”.

Per Adorno la verità dell’arte rifugge dall’arrendevolezza alle categorie di produzione di massa che alimentano l’ideologia imperante. L’arte vera, e cioè quella priva di funzioni, ha una sua funzione: “Essa sola, nei suoi prodotti più maturi e più coerenti, riflette l’immagine della repressione totale ma non ne convalida l’ideologia”. Quindi, non solo per Adorno la musica non ha tra le proprie vocazioni quella di portare alla luce sentimenti o stati d’animo, di prefigurarli nel vissuto umano, ma considera nei tempi moderni tali effetti secondari e sostanzialmente complici di un sistema politico, economico e culturale capillarmente reificante.

Ciò che per Ansermet costituisce l’originalità della musica, ovvero la facoltà di portare alla luce tutta una varietà di modalità affettive e di diversi modi di una stessa modalità affettiva, per Adorno partecipa invece di un processo di mediazione in sé reazionario. Mentre per Ansermet “la gioia che esprime Beethoven nell’ottava sinfonia non è la stessa di Rossini nel Barbiere di Siviglia o di Mozart in Così fan tutte”, e la musica riesce a far emergere i tratti salienti di ciascun tipo di gioia o di dolore, per Adorno essa non deve proporsi di portare alla luce queste diverse manifestazioni di sentimenti contrastanti, perché riconoscerle nei tempi moderni una simile funzione equivarrebbe a voler celare la crisi di valori estetici e culturali che invece, in quanto arte, ha il dovere di denunciare.

Per Ansermet la musica non serve a rilevare le contraddizioni di un sistema sociale quale si riverbera nei suoi modelli estetici e culturali, o nella crisi, percepita come ineluttabile, di un momento della sua storia, ma soprattutto a esprimere degli stati d’animo che in nessun altro modo potrebbero essere con altrettanta efficacia e immediatezza espressi, come per esempio i diversi tipi di gioia o dolore che Beethoven, Rossini e Mozart hanno provato, non in quanto musicisti, ma in quanto uomini dotati di una differente “struttura affettiva”. Al contrario di quanto pensa Adorno, l’esperienza musicale si basa dunque per Ansermet su una “coscienza musicale” che non può prescindere dagli stati d’animo che sa evocare e che è per sua natura “dotata di immediatezza”, e cioè “irriflessa” e capace di comunicare direttamente con un pubblico vasto, virtualmente illimitato, e dunque capace anche di raggiungere ogni più riposto angolo d’umanità

Filosofia della musica moderna di Theodor W. Adorno, Torino, 1969 e 2002, Einaudi editore, 209 pagine, 20 euro

Scritti sulla musica di Ernest Ansermet, Milano, 1983, Curci edizioni, 240 pagine, 20 euro


di Gustavo Micheletti