Europa e Diritti L’intervista a Terzi

martedì 18 febbraio 2014


In data 16 Febbraio 2014 intervistiamo l’ambasciatore e già ministro degli Esteri nel Governo Monti, Giulio Terzi di Sant’Agata. Stato di diritto e Stati Uniti d’Europa, diritto internazionale e ragione di Stato, quali sono le prerogative che il Governo italiano inserito nel circuito di un’Europa unita deve affrontare nell’esaminare le emergenze legate alla mancanza del diritto interazionale umanitario e alla sua sistematica violazione? Ne discutiamo con Giulio Terzi.

A Bruxelles il 18 e 19 febbraio 2014 si terrà un convegno organizzato dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, dedicato al “Diritto alla verità”, avrà come titolo “Per lo Stato di Diritto e i Diritti Umani contro la Ragion di Stato” e vedrà il sostegno di Guy Verhofstadt, Antonio Tajani, Louis Michel, Monsignor Agostino Marchetto, Bakhtiar Amin, Fausto Bertinotti, Paolo Prodi, Vittorio Prodi, Niccolò Rinaldi, Struan Stevenson, Marco Pannella, Emma Bonino, Annamaria Cancellieri oltre a quello di significativi ministri di governi europei, africani, mediorientali e asiatici. ‘'è molta attenzione a questo tema: quale ruolo potrebbe svolgere l’Italia nel contesto internazionale della difesa dei Diritti Umani?

Il convegno organizzato al Parlamento Europeo (oggi e domani, ndr) prende spunto dall’“inchiesta Chilcot” sull’intervento in Iraq nel 2003 e intende riaffermare il “Diritto alla Verità” come principio guida nelle relazioni internazionali. Parteciperò al convegno per sottolineare come l’affermazione dell’interesse nazionale debba sempre comprendere la tutela dei diritti umani, la diffusione della libertà e della democrazia. In questo senso, una concezione moderna dell’“interesse nazionale” non può certo confondersi con una superata Ragion di Stato, basata su logiche di preminenza e di potere. Il convegno ribadirà anche l’importanza di “aprire gli archivi”, come da anni cerca di fare la Commissione Chilcot, per stabilire in che modo sia stato deciso l’intervento in Iraq nel 2003, e le strategie che ne sono seguite. Non è che in questi dieci anni siano mancati chiarimenti su decisioni e sviluppi non particolarmente felici, come l’affrettata eliminazione del partito Baath e delle strutture amministrative e di sicurezza irachene; il conseguente senso di emarginazione nel dopo Saddam avvertito dai sunniti, con divampare della violenza settaria; la sottovalutazione del “risveglio sciita” e dell’influenza iraniana in tutta la regione. Altrettanto evidente è la debolezza della tesi che Saddam stava violando la Risoluzione Cds 1441 sulle armi di distruzione di massa (Adm), legittimando così l’azione militare: armi che non sono mai state trovate. Ne parla diffusamente lo stesso presidente Bush nelle sue memorie, riconoscendo le lacune nelle valutazioni politiche, ed errori nell’interpretare, insieme ad altri Governi, gli elementi forniti dall’intelligence. La ricerca della verità su quanto avvenuto nel 2003 non ha tuttavia un mero valore di oggettività storica o di individuazione delle responsabilità. Capire quanto avvenuto è essenziale a una ritrovata credibilità. La vicenda delle Adm irachene continua a nuocere all’Occidente. Ancora oggi essa nuoce alle nostre posizioni sulla Siria e sul nucleare iraniano. Mi auguro che a Bruxelles si parli anche delle proposte lanciate da Marco Pannella nel 2003 nel tentativo di evitare il conflitto: per esiliare Saddam, e sottoporlo alla Corte Penale Internazionale, anziché a un Tribunale iracheno inevitabilmente immerso in un clima settario. La tragedia dei Mujaheddin di Camp Liberty, massacrati dalle milizie sciite nonostante il loro status di persone protette dall’Onu e dagli Usa, dovrebbe emergere con altrettanta evidenza nella discussione a Bruxelles, se vogliamo davvero parlare delle conseguenze drammatiche di quanto accaduto nel 2003.

Il ministero degli Esteri italiano prosegue nella propria missione di svolgere un ruolo di primo piano nel contesto internazionale: quale è la sua opinione riguardo l’attuale gestione della Farnesina?

La politica estera di un Paese come il nostro deve avere orizzonti globali. Dobbiamo essere riconosciuti come protagonisti in Europa, nella comunità atlantica, nelle questioni regionali per noi più significative sotto il profilo economico e della sicurezza nazionale. Mediterraneo, Medio Oriente, Balcani, politiche europee di partenariato a Est come a Sud, rapporti con i Paesi Brics, costituiscono per l’Italia le direttrici fondamentali dell’azione diplomatica. La forza della nostra politica estera risiede soprattutto, a mio parere, nella coerenza ai valori di riferimento europei e atlantici, nella inclinazione al dialogo, nella “domanda di Italia” che si avverte nel mondo: una domanda rivolta alla cultura italiana; alle nostre imprese, che sono riuscite a mantenere nei mercati esteri buoni ritmi di crescita; nella passione manifestata per il loro Paese di origine da decine di milioni di connazionali che vivono e operano all’estero. Se mi chiede dove e per chi si deve fare molto di più, la risposta è semplice: per gli italiani nel mondo! Non è solo un imperativo morale. È anche un preciso interesse nazionale. Per questo si dovrebbe assolutamente evitare - e si può - la chiusura di altre sedi diplomatico-consolari. Se politica estera è l’ambito nel quale deve essere sostenuta la sovranità italiana, ci deve essere un netto cambio di marcia: nelle azioni concrete e nella consapevolezza che Governo e Parlamento devono dare all’opinione pubblica. Facciamo esattamente il contrario e lediamo la sovranità del Paese quando abbandoniamo i Marò alla giustizia indiana; quando il Governo “riscopre” solo con immenso ritardo, per di più in “articulo mortis” nel giorno stesso delle sue dimissioni, la soluzione di un Arbitrato obbligatorio, che stiamo con molti altri internazionalisti invocando da un anno; o quando rimuoviamo Cesare Battisti dagli “atti dovuti” dell’esecutorietà di sentenze italiane ed europee verso un terrorista condannato all’ergastolo e da tempo scappato in Brasile.

Alle prossime elezioni europee, analizzando il generale pensiero dell’opinione pubblica, sembrerebbe prevalere un forte consenso verso gli euro-scettici di vario colore, secondo lei come affrontare tale situazione? Come riproporre nuovamente la questione europeista all’elettorato italiano?

La delusione verso l’Europa riflette l’esasperazione verso burocrazie ritenute onnipotenti e scarsamente “accountable” nei confronti dei cittadini. Mi sembra tuttavia che influisca in misura ancora maggiore l’insofferenza per l’incapacità dei Governi nazionali e locali a creare occupazione, a lottare realmente contro una corruzione pervasiva, a responsabilizzare una classe politica vista come autoreferenziale e inamovibile. La risposta deludente fornita da un’Europa a guida tedesca alla crisi economica ha danneggiato la credibilità delle Istituzioni Europee in un’Italia che ha perso in poco più di due anni l’8% di Pil, migliaia di imprese, decine di migliaia di giovani laureati emigrati all’estero. Ma tutto ciò non riguarda solo l’economia. Quali successi può vantare la diplomazia dell’Unione nell’immane tragedia siriana, in Ucraina, in Libia? Intendiamoci, non ci sono soltanto ombre. Le missioni di “institution building” dell’Ue svolgono un ruolo importante in molte regioni che hanno anche per l’Italia rilevanza strategica. Il semestre italiano di Presidenza sta per iniziare: un’occasione per noi unica per cercar di guidare l’agenda europea verso priorità che aggreghino “cooperazioni rafforzate” e alleanze tra Paesi che non si vogliono sempre e soltanto appiattire su Berlino. Abbiamo utilizzato davvero il 2013 per lavorare in questa direzione? Neppure tra le forze tradizionalmente più europeiste della politica italiana. Non so se basterà a una ripresa di quota del progetto europeo la proposta di denunciare il Fiscal Compact, perché negoziato su premesse macroeconomiche errate; o di rafforzare la nostra sovranità monetaria accrescendo il carattere “pubblico” anziché “privato” della Banca d’Italia (come fatto invece dal Governo Letta); o di rilegittimare democraticamente - come appare ineludibile - le istituzioni europee rendendole elettive; o di rilanciare una vera politica comune dell’immigrazione, dell’energia e delle infrastrutture. È probabile che l’elettorato alle Europee non si impressionerà più di tanto. Tuttavia, questo è il momento degli impegni chiari da assumere circa l’Europa che vogliamo.

C’è chi lavora incessantemente per la creazione degli “Stati Uniti d’Europa”: come proseguire al meglio lungo questo percorso? Quali passi percorrere nel prossimo futuro?

L’ideale federalista ha avuto e continua ad avere un ruolo d’impulso molto grande nella storia dell’integrazione europea. Dall’unificazione tedesca in poi, l’obiettivo dell’Unione Economica e Monetaria ha tuttavia seguito un percorso più rapido dell’Unione politica. Intendiamoci bene. Unione politica non significa ancora la creazione degli Stati Uniti d’Europa né, per quanti intendono giustamente rispettare le sovranità e identità nazionali, l’immersione in un “melting pot” nel quale moltissimi europei non si riconoscerebbero. Se la legittimità e la rappresentanza democratica dei cittadini saranno rafforzate, una vera Unione politica costituirà una base molto più solida di quella, ancora incerta, sulla quale poggia attualmente la “governance” dell’economia, della moneta e della politica estera e di sicurezza. Questo, se vogliamo essere realisti, è già un obiettivo assai ambizioso.


di Domenico Letizia