Politica economica   a suon di hashtag

Purtroppo ci tocca parlar male di Renzi. Forse Berlusconi se la prenderà, convinto com’è che il Premier sia bravo e che l’unico grosso difetto sia quello di non aver scelto il centrodestra per fare politica.

Non siamo d’accordo con Berlusconi ma lo rassicuriamo subito sul fatto che cercheremo di trattare il suo Matteo non troppo male, avendo cura dello stallone fiorentino per rispetto del suo Cavaliere lombardo.

Premettiamo che l’ “Economist” è arrivato prima di noi a definire la sua azione di Governo come caratterizzata da “inesperienza, improvvisazione e vacuità”, adducendo come prova la promessa, clamorosamente propagandistica oltre che ampiamente disattesa, di fare una riforma al mese.

Sempre con il dovuto rispetto, ci permettiamo di dare ragione all’autorevole foglio londinese, anche perché sarebbe impossibile urlare alla macchina del fango internazionale dopo che le famosissime scadenze sono state tutte ampiamente toppate, senza che nessuno possa negare tale evidenza.

Sarà che ci sentiamo gli ultimi giapponesi di centrodestra e sarà anche che il tassa e spendi (alias gli 80 euro elargiti a spese del contribuente) ci fa venire l’orticaria, ma in effetti la politica economica di questo Governo non ha un filo conduttore, una strategia, una continuità ma è solo una serie di cose dette, di pensierini sbandierati online e di risultati (pessimi) omessi.

Il Premier veloce, quello che doveva cambiare tutto a dispetto dei gufi, quello del riscatto dei giovani, quello di Telemaco e della volta buona dopo mesi di promesse è in ritardo su tutto, ma nessuno lo dice.

Chi dovrebbe sbugiardarlo gli accarezza il capo benevolmente, impegnandosi in tenui paternali d’ufficio (quanto basta, come direbbe Vissani) e omettendo la triste contabilità dei fallimenti: nei primi 145 giorni di Governo, Renzi ha portato a casa solo dieci leggi (nove sono stati i voti di fiducia) e, su cinquantuno decreti di iniziativa governativa, nella presente legislatura ne sono stati convertiti in legge solo trentacinque.

Riforma della Pubblica amministrazione, conversione del decreto Competitività, delega sul lavoro (ex “Jobs Act” diventato fuffa), “Art bonus” (alias decreto cultura e turismo), riforma del Senato, norma sul catasto e tributi (Legge 23/2014), sono tutte robe annunciate in pompa magna e smarrite nei meandri delle carte bollate e delle commissioni parlamentari. Ma questo lo raccontano poco e male.

Visto poi che non basta annunciare le riforme ma bisogna anche attuarle, i decreti attuativi mancanti all’appello sono ben 812 di cui 133 attribuibili al Governo Renzi (gli altri appartengono addirittura agli esecutivi Letta e Monti). A cosa serve sbandierare le cose fatte se poi esse non vengono attuate? Mistero.

L’ultimo slogan renziano, molto bello come tutti gli altri per la verità, tende inoltre a marcare la differenza tra i suoi fatti concreti e la sterile polemica degli altri. In sostanza, mentre tutti gli altri cianciano e gufano, io faccio le cose concrete.

L’affermazione fa paura perché dimostra che ormai la politica è diventata un fatto virtuale, di comunicazione, una sorta di realtà parallela completamente slegata dai dati reali ove, se dici la cosa giusta, quella che la gente attende di sentire, puoi tranquillamente sparare ciò che ti pare e piace perché nessuno oserà contraddirti ed il pueblo se la berrà (fin quando gli vai a genio).

La produzione industriale torna a calare (-0,5 per cento nel secondo trimestre), il pil ha crescita nulla, una persona su dieci è scivolata in situazione di povertà assoluta, in dieci anni si sono persi 2,3 milioni di posti di lavoro tra gli under 35, i consumi sono a -0,7 per cento rispetto al mese precedente, le esportazioni verso i Paesi extra Unione europea tornano in calo a giugno e perdono il 4,3 per cento rispetto a maggio, ci troviamo tecnicamente in deflazione.

E Renzi che fa? Smanetta con Twitter, sparge slogan, diffonde ottimismo, gioca al piccolo leader europeo proprio mentre la gente lo acclama come il salvatore della Patria, senza essere ben conscia del perché lo faccia.

Parliamo inoltre di debito pubblico: a dispetto della fanfara messa in campo sulla spending review, a maggio il debito è aumentato di 20 miliardi sul mese precedente raggiungendo la cifra record di 2.166,3 miliardi (+96 miliardi solo nell’anno corrente). E il ministro Padoan dichiara: “Una crescita più sostenuta è la via maestra per abbattere il debito pubblico”. Sarà che siamo cresciuti a pane, Antonio Martino e Milton Friedman, ma questa ci sembra una bestemmia. Semmai l’abbattimento della spesa corrente e del debito pubblico potrebbero liberare risorse da investire in sviluppo. La crescita la finanzi con l’abbattimento della pressione fiscale. Per Giove Pluvio, ma Padoan ha mai analizzato cosa è successo in Irlanda negli ultimi cinque anni?

Bene lo illuminiamo noi: mentre l’Italia si impiccava sull’altare dell’austerity, l’Irlanda ha mandato a ramengo gli euroburocrati, ha tagliato la spesa pubblica all’osso, ha mantenuto inalterata la pressione fiscale al 12,5 per cento, è cresciuta quasi del 3 per cento annuo (uscendo in poco tempo dai programmi di salvataggio Ue) e ha abbattuto spesa pubblica e debito, proprio grazie alla crescita ed alla spending review.

La stessa cosa è successa in Inghilterra con la “revisione globale della spesa” (pensata per le annualità 2000 - 2007) che a regime ha portato un taglio di 23,1 miliardi di sterline a fine 2007 e ha in cantiere un piano di risparmio in stato di avanzata attuazione (con effetti superiori alle aspettative) che porterà un riduzione di 81 miliardi di sterline nel periodo 2011-2015.

Stessa cosa in Giappone (la spending review ha comportato un risparmio di 42 miliardi di dollari nel periodo 2009-2013) e in Olanda (-35 miliardi nel periodo 2009-2013).

In Italia, invece, questi parlano e coniano stupendi hasthtag, unica politica economica di questo Governo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:21