L’impreparazione sui derivati di Stato

venerdì 1 maggio 2015


La bolla da tempo annunciata dei “derivati di Stato” si sta addensando sopra la nostra testa con rumori sinistri ed aspettative di alto rischio per la tenuta complessiva dei già precari conti pubblici.

Il tema viene da lontano e solo una colpevole omertà ha permesso di tenere la polvere sotto il tappeto fino a quando non è stato più possibile. Nel libro “È tutta un’altra storia. Ritornare all’uomo ed all’economia reale” edito nell’aprile del 2013 ma presentato per la stampa nel dicembre del 2012 scrivevo, a pagina 160, in riferimento alle operazioni di copertura con i derivati fatte nel 1993 che “...le entrate dalle vendite (delle aziende di Stato, l’alimentare italiano andato in una notte) non sarebbero servite a modificare la dimensione del debito perché portate in gran parte a sostenere la spesa corrente e non a ridurre il debito. La tensione sulla lira suggerì di ricorrere a forme di copertura finanziaria innovative in quegli anni: per la copertura del debito si stipularono derivati per un valore che non è mai stato chiarito del tutto ma che oggi essendo ancora in essere queste operazioni, secondo i dati di Bloomberg, ci costerebbero “mark-to-market” dai 25 ai 30 miliardi di euro per chiuderli. Ma, d’altro canto, la finanza era da considerarsi una verità incontrovertibile da non mettere in discussione”.

Il dato oggi è peggiorato e si avvicina ai 43 miliardi di euro con in più una tassa-interessi annua da 3 miliardi di euro a cui si aggiungono i derivati fatti dalle pubbliche amministrazioni locali. È da allora che ci trasciniamo quel segreto di Pulcinella che nessun Governo ha voluto vedere per non sporcarsi le mani e quindi la varie finanziarie sono filate via sotto banco in una sorta di omertà collettiva come quella attuale che prevede perfino la costituzione di un collaterale di liquidità all’estero a garanzia della controparte bancaria. Eppure l’articolo 54 della Costituzione dice “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. I ministri giurano la trasparenza e la rendicontazione, ma sembra che oggi siano più disposti a giurare su Topolino o Tex Willer. Parole come “onore” e “disciplina” sembrano antichi suoni di parole perse nel vento.

Ora il tema è di assoluta criticità ma per capire il senso della copertura opportunistica fatta nel 1993 è necessario percorrere, in sintesi, la storia che ci sta mettendo di fronte a problemi di natura straordinaria perché tali sono le crisi che si verificano quando un modello socioculturale collassa. I nodi vengono sempre al pettine ma da un po’ di tempo sembra che i denti del pettine siano così larghi da far passare i nodi.

Siamo da tempo entrati nel mondo della finanza razionale come verità incontrovertibile, diventata una sorta di pietra filosofale in grado di cambiare la pietra in oro e di rendere tutti vittime della sindrome di re Mida. La moneta-mezzo ed intermediario degli scambi come la intendeva già Aristotele è diventata moneta-fine, la crematistica denunciata da lui come finalità esclusivamente accumulativa di ricchezza senza redistribuzione.

Abbiamo sovvertito l’ordine delle cose mettendo la finanza sopra l’economia reale; già il grande Keynes, passato per il dissesto finanziario della grande depressione diceva: “Se la finanza rimane una bolla sopra le intraprese economiche può essere innocua se le intraprese economiche diventano una bolla sopra la finanza è la fine”. Il processo di finanziarizzazione dell’economia reale e della sua deificazione acritica è cominciato agli inizi degli anni Settanta, quando Nixon dichiarò lo sganciamento del dollaro dalla parità aurea - 28 dollari stampabili ogni grammo d’oro - perché i creditori degli Usa non fidandosi della massa monetaria del dollaro volevano essere pagati in oro riducendo all’osso le riserve auree del Paese, come sta succedendo oggi. Di fatto la Fed, sempre lei, rifiutandosi di riscattare in oro i dollari posseduti da altre banche centrali stracciò l’ordine monetario stabilito a Bretton Wood nel 1944; di colpo il mondo si ritrovò ostaggio di un regime di tassi di cambi fluttuanti che cambiò radicalmente il sistema monetario basato sul dollaro in un gigantesco sacro tempio della speculazione i cui sacerdoti venivano ammantati di sacralità infallibile. L’operazione del “petrodollaro” funzionale a creare la domanda per la montagna di dollari stampati e scaricare l’ondata inflattiva su altri paesi come il nostro, inaugurò così la progressiva sudditanza ad un sapere fondato non su ipotesi scientifiche corrette; un approccio non scientifico l’avrebbe definito Friedrich von Hayek nel suo discorso di accettazione del Nobel nel 1974, ma subito in modo acritico. Proprio la “Mont Pelerin Society” fondata dal liberismo austriaco dell’economia scienza sociale con radici nel pensiero e nella cultura europea fatta di storia, filosofia, politica, passò a Milton Friedman portatore dell’economia scienza positiva, esatta e dei mercati razionali che non sbagliano mai nell’allocazione delle risorse. Il mantra sarebbe diventato legge a cui sottomettersi con devozione anche opportunistica.

Dagli inizi degli anni Settanta il campo della finanza diventò sempre più il gioco del monopoli con pochi vincitori e tanti sconfitti, la finanza contribuì a definire un ordine mondiale essendo usata come arma di dominio egemonico sia nei mercati che nell’indirizzare le scelte di geopolitica. Da allora le innumerevoli crisi finanziarie che si sono susseguite come un tremendo “tsunami” - le crisi del petrolio (1973 e 1979), Black Monday (1988), Banking strains (1991), Dotcom-crash (2000) poi la bolla internet ed infine oggi - si sono sempre più allungate ed approfondite per scaricarsi con l’ultima tuttora in corso sul mondo intero e mettendo in discussione il senso della storia dell’uomo: siamo arrivati alla fine di un modello socioculturale che ci sta trascinando al caos. Il pifferaio magico ha portato il citizenship (la società gregge) alla fine della strada e dentro al fiume dove rischiamo di annegare. Gli Usa per primi stanno sperimentando l’effetto devastante di una finanza che sta portando la loro società ad un collasso socioculturale e non diversamente la Gran Bretagna.

La svolta è avvenuta con la rapida implosione dell’impero russo che ha reso dominate quel modello culturale che aveva già affondato le radici in una progressiva erosione della democrazia politica a favore di un’oligarchia finanziaria: stava arrivando il momento dei derivati di Stato. Il Paese già indebolito dalla crisi petrolifera si trovò ad affrontare un attacco speculativo della finanza funzionale ad indebolire la lire ed a compromettere la sua partecipazione allo Sme; nel 1992 quasi contemporaneamente alla nomina del Governo Amato, secondo la prassi sperimentata, Moody’s declassa a sorpresa il Paese senza che gli equilibri di bilancio lo giustificassero, esattamente come nel settembre del 2011 quando Standard & Poor’s declassò di notte ed a sorpresa il Paese.

Il Paese fu costretto ad inseguire la liquidità necessaria per fare fronte alla crisi creata con la vendita della aziende di Stato (Il Britannia) e con la stipula di quei derivati di copertura che oggi ci sono sopra come la spada di Damocle; anche i depositi dei conti correnti contribuirono a ridurre l’effetto della mattanza. In condizioni di sudditanza e di fonte alla legittimazione accademica di questi nuovi strumenti finanziari ci siamo legati ad un debito il cui detentore ci tiene sotto scacco.

I “derivatives” avevano già avuto il battesimo di fuoco nel crollo del Dow Jones il 19 ottobre 1987, le finanziarie acquistavano contratti a termine, i “futures” non di ditte specifiche ma su interi indici borsistici, a valori inferiori ma anche superiori alle azioni stesse; la bolla speculativa si avvalse della tecnologia dei pc programmati per operare rapidamente in caso di discesa dei prezzi che mandarono in tilt il sistema. Era nata la nuova borsa simile a Las Vegas dove la gran parte delle scommesse non sono coperte, nasceva la trappola per gli stati e per i risparmiatori, la liquidità ed il credito facile avrebbero portato tutti all’indebitamento ed a gettarsi sul miracolo di una finanza che prometteva a tutti l’arricchimento facile ma poi anche la garrota.

Gli anni Novanta hanno preparato il terreno per il disastro del nuovo secolo e creato quella sudditanza verso un sapere che non ammetteva critiche; come si fa a non usare strumenti come i derivati fatti da fisici nucleari, matematici puri, statistici in un mondo siderale lontano dall’economia reale anni luce ma ricoperti dai nobel dall’Accademia; Merton e Scholes nel 1977? Se lo dicono loro anche se nessuno ne capisce nulla perché non fidarsi e qui sta la trappola mortale in cui siamo caduti preda di troppo opportunismo e di garanzie fasulle. All’inizio del secolo i derivati sarebbero diventati “commodities” anche per le pubbliche amministrazioni locali in grado di garantire l’indebitamento senza sforare il patto di stabilità e così via, tutti a farli tanto poi ci poteva essere il premio per il politico e la corruzione sarebbe dilagata.

La storia sta drammaticamente dimostrando che quelle operazioni erano fatte in contesti di assoluta asimmetria informativa, che la verità della razionalità dei mercati è priva di fondamento scientifico e che le banche d’affari possono manipolare fraudolentemente il mercato - lo spreaded il rating sono un gioco da “jukebox”; il Dipartimento di Giustizia Usa ha condannato per questo sia Standard & Poor’s che le principali banche d’affari di Wall Street. Alla luce di queste considerazioni, gli attuali contratti di derivati hanno una forma di debolezza nei contenuti tale da essere impugnati per la loro validità? Non possiamo andare avanti all’infinito con la pistola puntata alla tempia nascondendo i problemi dietro un dito; “quod differtur non aufertur”.

 

(*) Professore ordinario di Programmazione e Controllo - Università Bocconi


di Fabrizio Pezzani