Bce: i Forum di Sintra

I banchieri centrali americani e le principali personalità del mondo finanziario internazionale si riuniscono, come da tradizione, ogni fine agosto, nei cosiddetti incontri di Jackson Hole, nello stato del Wyoming, organizzati dalla Federal Reserve. Anche Mario Draghi, come lui stesso ha detto, al fine di “riflettere in modo approfondito su come gestire le sfide fondamentali che le banche centrali hanno di fronte”, ha voluto che la Bce organizzasse i “Forum di Sintra”, la località del distretto di Lisbona dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità, che si tengono verso metà maggio. Finora ne sono stati effettuati due: quello del 2014 sul tema “La politica monetaria in un prolungato periodo di bassa inflazione” e quello del 2015 su “Inflazione e disoccupazione in Europa”.

Nel forum del maggio 2014, i banchieri centrali e gli esperti presenti hanno constatato che le vecchie politiche economiche non funzionano più come prima o, addirittura, forse non tutte funzionano più. Si è così gestita la crisi immettendo moneta (Quantitative Easing/Qe). La politica monetaria del Quantitative easing, nel maggio 2014, era stata già realizzata da tre grandi banche centrali: la Federal Reserve, la Bank of Japan e la Bank of England.

La Federal Reserve, cioè la banca centrale degli Stati Uniti, guidata da Ben Bernanke, ha disposto l’acquisto di bond sia del Tesoro sia di obbligazioni legate ai mutui in quantità enormi e, più precisamente, circa 80 miliardi di dollari al mese negli ultimi cinque anni. Ha così trascinato gli Usa fuori dalla crisi e sostenuto la crescita americana. A Bernanke è subentrata Janet Yellen, una donna decisa a proseguire la scelta intrapresa della crescita e dell’occupazione. Una donna, cioè, formata alla scuola di Tobin (premio Nobel per l’economia nel 1981), assertore del ruolo dell’intervento pubblico per uscire dalle crisi e sposata a Akerlof (altro premio Nobel per l’economia, nel 2001), che si è opposto alla teoria sull’auto-regolazione dei mercati.

La Bank of Japan, cioè la banca centrale del Giappone, ha seguito una simile politica monetaria. Nell’aprile del 2013 ha annunciato di voler incrementare il suo programma di acquisto di titoli per 1.4 trillioni di dollari in due anni. La banca del Giappone conta di mantenere l’inflazione al 2 per cento e così uscire dalla recente deflazione e incentivare l’export giapponese, spesso minacciato da quello cinese. Allo stesso tempo si avrà un aumento dell’1,5 per cento della spesa pubblica. Già si hanno indiscutibili benefici nell’economia nipponica e il tasso di crescita annuale si attesta attorno al 3 per cento. L’aspetto negativo di questa politica proviene dalla riduzione del potere d’acquisto dei giapponesi: l’aumento dell’inflazione, infatti, non è accompagnato da un eguale aumento dei salari. Tendenza che il governo dice di fermare con il raggiungimento di una maggiore competitività, basata su ricerca e sviluppo.

La Bank of England, cioè la Banca centrale d’Inghilterra ha confermato, a marzo del 2014, la propria politica monetaria del Quantitative easing e ha anche confermato i tassi di interesse. Il saggio di riferimento, quindi, rimane fermo allo 0,50 per cento, livello ormai fissato dal marzo del 2009. Gli esponenti della banca centrale inglese si sono trovati d’accordo sul fatto di mantenere inalterato il piano di riacquisto dei titoli di Stato, che è stato confermato a 375 miliardi di sterline. Lucida è l’analisi fatta sugli effetti delle politiche monetarie non convenzionali adottate nel Regno Unito: la banca centrale, cioè, non intende avventurarsi nell’assunzione diretta di crediti all’economia.

Queste esperienze hanno spinto i più recalcitranti rappresentanti dell’Europa, finalmente, ad un’apertura. E così anche la Banca centrale europea ha introdotto, nel gennaio 2015, il Qe, una misura monetaria, di tipo non convenzionale, con cui si acquistano titoli pubblici emessi dai singoli Stati nazionali dell’Eurozona. In altri termini, la Bce stampa nuova moneta per comprare i titoli di Stato nazionali. In conseguenza, si immette, attraverso l’acquisto dei titoli di Stato, nuova liquidità sul circuito economico e così si rilancia l’economia, prevedendo un livello d’inflazione del 2 per cento.

Nel forum del maggio 2015 si è fatto un ulteriore passo in avanti. Il problema che è stato dibattuto a Sintra è semplice nella sua formulazione, ma risulta difficilissimo nella sua attuazione. Dopo quasi sette anni dall’inizio della crisi finanziaria, benché sia stata immessa nella zona euro un’elevata quantità di moneta, i paesi europei, a parte alcune eccezioni, non riescono ancora a ridurre il numero dei disoccupati. Si è riusciti solo ad attenuare, in qualche modo, le tensioni sociali. Benché l’economia sia stata sostenuta da una forte emissione di valuta, non si riesce tuttavia a produrre nuovo lavoro.

È lapalissiano che la disoccupazione si combatte solo creando nuovi posti di lavoro. E per creare nuovi posti di lavoro bisogna investire. La moneta è stata immessa abbondantemente, ma questi risultati non si sono avuti. Banchieri centrali provenienti da tutto il mondo (Usa, Giappone, Gran Bretagna, Paesi emergenti, oltre gli europei), i più grandi esperti di finanza e il gotha dell’economia mondiale, sono stati impegnati, per tre giorni, nella soluzione di questo problema. Dopo la sessione inaugurale, le altre due sessioni hanno avuto per tema, venerdì 22 maggio, “Prospettive correnti su inflazione e disoccupazione nell’area Euro e nelle economie avanzate” e sabato 23 maggio “Prospettive strutturali sull’occupazione europea: produttività e crescita in un contesto globale”. Temi decisivamente concreti e particolarmente impellenti per l’Europa che stenta a ripartire, nonostante sia stato operato anche il deprezzamento dell’euro.

Alcuni hanno sostenuto che gli scarsi investimenti del recente passato (sia privati che pubblici), dovuti ad eccesso di risparmio, indurranno ancora, per svariati anni, una crescita bassa. Altri che l’economia europea è sclerotizzata, a causa del peso eccessivo dello Stato, che con la sua burocrazia e con una congerie di legislazione spesso confusa scoraggia gli investimenti, soprattutto quelli innovativi e, in conseguenza, impedisce creazione di nuovi posti di lavoro. Altri ancora attribuiscono l’elevata disoccupazione alle recenti tecnologie (robot, super-computer, app…), che eliminano i vecchi posti di lavoro. Altri che le politiche espansive attuate dalla Bce sono ancora scarse e soprattutto sono intervenute tardivamente. Altri, infine, invocano una maggiore unione di intenti e una più intensa cooperazione tra la Bce e la Fed, perché da loro dipende il futuro del cambio euro-dollaro, con i relativi riflessi sulle esportazioni.

Draghi, in uno dei suoi primi interventi, ha affermato che per l’Eurozona le attuali prospettive economiche “sono le migliori degli ultimi sette anni”. Tuttavia, il potenziale di crescita dell’insieme dell’area euro è sotto l’uno per cento, e ciò significa “che una parte significativa delle perdite subìte durante la crisi diventerebbe permanente, con la disoccupazione strutturale che resterebbe sopra il 10 per cento e la disoccupazione giovanile elevata”. Ha sottolineato poi che la politica monetaria “si sta facendo sentire sull’economia” e che “la crescita sta riprendendo”, poiché anche “le attese sull’inflazione sono risalite dai minimi”; ma che questo “non significa affatto che non ci siano più sfide da affrontare: la ripresa ciclica non risolve da sola tutti i problemi dell’Europa”.

“Credo ci siano molte cose che parlano a favore di una governance sulle riforme strutturali esercitata congiuntamente a livello dell’Eurozona – ha continuato Draghi – Visto che le riforme strutturali in ciascun Paese dell’area sono un legittimo interesse dell’intera Unione, c’è bisogno di una forte collegialità nelle riforme non solo a livello nazionale, ma anche a livello europeo. In ogni caso, tutta la discussione sull’importanza delle riforme strutturali porta a una sola conclusione: prima si fanno, meglio è”.

Secondo il numero uno della Bce, un adeguato livello di flessibilità delle economie nazionali nell’area dell'euro “dovrebbe far parte del nostro Dna comune. Come in ogni unione politica, il livello di coesione all’interno dell’area dell’euro dipende dal fatto che ciascun Paese sta meglio nell’Unione piuttosto che fuori. La convergenza delle performance economiche è essenziale per tenere assieme l’Unione, mentre continue divergenze dovute alla non omogeneità strutturale hanno l’effetto opposto”. Per Draghi, inoltre, le riforme del mercato del lavoro, in Europa, devono fare leva sulle caratteristiche dello stesso lavoro, cioè su flessibilità di orari e salari, piuttosto che su licenziamenti ed esuberi, se si vogliono massimizzare i benefici positivi fin dal breve termine. Il governatore della Bce, Mario Draghi, nel suo intervento conclusivo, ha poi lanciato un grave monito: “In una Unione monetaria non ci si può permettere di avere profonde e crescenti divergenze strutturali tra Paesi, perché queste tendono a diventare esplosive”. Ha anche aggiunto che “possono arrivare a minacciare l’esistenza dell’Unione monetaria stessa”.

Ad evitare ogni equivoco, Draghi ha sottolineato anche che spetta comunque agli Stati stabilire come muoversi in queste circostanze perché i banchieri centrali della Bce “non vogliono essere invadenti e non vogliono dire ai governi cosa devono fare”. Draghi ha comunque aggiunto che “questo è il momento migliore per fare le riforme strutturali”, ed invita ad accelerarle, per aiutare la ripresa economica, sull’esempio di Italia e Spagna. Sulla istituzione di cui è governatore, Draghi ha anche detto che la crisi ha cambiato la Bce per sempre, precisando però che il mandato dei banchieri centrali è rimasto lo stesso, mentre sono gli strumenti ad essere cambiati.

Alla luce di quanto discusso a Sintra, ora si attendono dalla Bce decisioni concrete che possano realmente incidere nella realtà quotidiana dei cittadini europei.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 18:36