Nessuna società può farcela senza impresa

sabato 27 giugno 2015


Nessun individuo sano di mente si sognerebbe oggi di avviare in Italia un’attività in proprio. Di compiere un’impresa. Nel nostro Paese le imposte sono esorbitanti e soprattutto imprevedibili, la burocrazia è arrogante e pretestuosa, miete vittime con le sue migliaia di adempimenti, regole insensate, bollini e timbri pro-forma, la liquidità del denaro è prosciugata dall’avidità delle banche e dei loro azionisti e i sogni non si fanno neppure più di notte. Eppure senza più sogni una società muore. Ogni individuo muore.

L’impresa, o intraprendenza, è l’elemento vitale su cui si fonda una società prospera e si realizza un’esistenza di soddisfazioni. E non si commetta l’errore di credere che è imprenditore solo colui che mette su la “fabbrichetta”. L’imprenditore è chiunque sia il co-creatore della sua vita, il costruttore di ciò che lo soddisfa pienamente. Qualunque mestiere svolga. Ma di mestieri nel nostro Paese non se ne fanno più. Ed è la progressiva rinuncia ad esprimersi attraverso di essi che ha nel tempo impoverito il Paese e le nostre vite.

L’Italia si sta avviando a diventare un Paese povero fatto di oltre 13 milioni di dipendenti (cioè che “dipendono” da uno scopo altrui) sempre più mal pagati, di pensionati (17 milioni) il cui scopo è godersi la vecchiaia, di disoccupati (4 milioni) il cui scopo è in-piegarsi e di aspiranti assistiti (10 milioni e più secondo le stime dei fautori del reddito di cittadinanza). Chi di questi ha uno scopo che va oltre la sopravvivenza? Come può un Paese con queste caratteristiche avere un futuro di prosperità? La società industriale e post-industriale ha nel tempo impoverito gli individui dei propri scopi vitali. Prima li ha sradicati dalle loro arti e dai loro mestieri mettendoli in fila nelle catene di montaggio di uno “scopo altrui” e poi, una volta sostituiti dalle macchine, li ha lentamente lasciati vuoti e smarriti in una sorta di non-luogo, in attesa che fossero riempiti di un nuovo scopo altrui. Ma questa volta senza più avere un ruolo attivo, sebbene dipendente, ma - al contrario - completamente passivo: consumare.

I media hanno progressivamente proiettato l’immagine di una società dove si poteva lavorare poco e guadagnare tanto. Guarda caso lo stesso spirito su cui è fondata la finanza speculativa. Ma non si è considerato che le misure si compensano sempre e laddove c’è qualcuno che guadagna tanto lavorando poco c’è chi lavora tanto guadagnando poco. La tentazione di autodistruggersi è il drago che alberga in ogni uomo e spesso, purtroppo, in certi momenti storici e in certe epoche il suo sopravvento segna la fine di intere civiltà. Nessuno deve pensare, ma tutti devono giocare. Questo è il gioco. Cosa sto facendo, dove vado, cosa voglio? Queste sono domande da non farsi mai. Domande pericolose che rischiano di farti uscire dal gioco, ma fuori dal gioco sei solo e la solitudine è ancor più temibile della morte.

Come tanti Pinocchio siamo stati tutti tentati dal Paese dei balocchi da cui ora non riusciamo più ad uscire, nonostante il Grillo parlante. In fondo la storia racconta che solo la fatina potrebbe aiutarci nel nostro intento, perché il Grillo finisce spiaccicato sul muro della nostra coscienza. La morale non ci salva, dice Collodi, il tuo animo sì. Ma che fine ha fatto? Una volta si diceva che il “diavolo” fosse disposto a comprarlo. In quanti l’hanno venduto?

Nel Paese dei balocchi o “inferno” non c’è posto per il piccolo, il caratteristico e il diverso. Tutto è grande, uguale e unico. Il cibo è unico, i vestiti uguali, la moneta è unica, la musica è unica, la lingua è unica, anche il pensiero è unico. L’unico scopo per tutti è “consumare”. Un consumo che diventa sempre più compulsivo, ma allo stesso tempo terapeutico perché in grado di contrastare gli stati depressivi dovuti ad una mancanza cronica di scopi veri e di conseguenti, vere soddisfazioni. Un circolo vizioso da cui non c’è via d’uscita. Una prigione senza sbarre dove siamo prigionieri e carcerieri allo stesso tempo. Eh sì, perché se non trovi la forza di liberarti, fai di tutto per boicottare colui che invece la trova. Perché non puoi accettare che qualcuno ce la faccia e tu no.

Così, l’uno contro l’altro, alimentiamo il nostro “diabolos” (dal greco divisione, separazione) interiore e pensando di combattere una guerra fuori non ci accorgiamo che la guerra è dentro, tra una parte di noi che vuole vivere e l’altra che con quattro monete si accontenta di sopravvivere.

Ci siamo fregati con le nostre mani, come sempre accade. Abbiamo generato una società mediatica dove il giudizio che gli altri hanno di te è più importante di quello che tu hai di te stesso. Così nessuno ha più voluto coltivare un mestiere, uno scopo di cui essere fiero. Chi avrebbe voluto continuare a fare il falegname, il calzolaio, l’elettricista, l’idraulico, il meccanico in una società che faceva vedere tutti alla scrivania sorridenti e abbronzati con un computer davanti? Nessun padre avrebbe voluto che i figli proseguissero le sue “orme”, ma anzi li hanno spinti con chissà quale illusione verso le nuove “professioni” e verso una vita tutta diversa dalla loro e da quella dei nonni. “Tu studia, per te vogliamo il meglio, non vogliamo che tu faccia i nostri stessi sacrifici!”. Questa era la preoccupazione di tutti i genitori che hanno fatto un mestiere che piano piano la società ha derubricato come fuori moda. Così non si imparava più un mestiere, ma si imparava ad andare “sotto padrone”, a mettersi in fila con il curriculum vitae. Tutti a scuola a diventare intelligenti. Come se l’intelligenza (dal verbo intelligere = capacità di guardarsi dentro) si potesse imparare all’università. Tutti sui banchi a imparare com’è il mondo in teoria e ad aspettare il posto di lavoro come premio per aver rinunciato a realizzare i propri, autentici sogni. I genitori e le famiglie non hanno più trasmesso la fierezza della loro tradizione lavorativa e non hanno dato ai figli un riferimento per il futuro. Questa tradizione è rimasta solo tra i livelli più alti delle professioni, come gli avvocati, i medici, i notai, i cui figli ancora seguono le orme dei padri. Ma di tutto il resto è stato fatto tabula rasa. Il lavoro non era più la soddisfazione e la realizzazione di sé, quella che abbiamo visto in certi anziani che avevano una loro piccola impresa e l’hanno portata avanti fino alla morte. Lavorare significava per loro sentirsi vivi e non come significa per molti oggi “far durare la fatica” per un po’ di soldi da poter spendere per essere felici.

Oggi abbiamo un Paese e una società che punisce, sanziona e opprime chiunque abbia in mente di mettersi in proprio, di fare un mestiere, di intraprendere, di fare un’impresa. Perché ciascuno di questi sarebbe per sua natura un uomo libero e oggi il vero nemico di questo grande sistema di dominio fondato su uno dei più antichi e tragici vizi capitali, l’invidia, non può accettare che esista qualcuno che abbia un sogno e lo realizzi. Meglio tutti in fila con il curriculum vitae in mano ad elemosinare un posto o a chiedere l’elemosina di Stato. Si è disposti a tutto affinché gli uomini rinuncino ad essere i creatori del loro mondo. O meglio, che lo siano, ma che sia il peggior mondo possibile. È sufficiente guardare come Hollywood, che da sempre anticipa i tempi, abbia proposto i film che parlano di futuro. Li avete visti? L’uomo si prepara a realizzare il peggio della propria natura. Porre i polsi ai vincoli della schiavitù. E poi? Poi arriverà qualcuno che vorrà liberarlo e per gratitudine verrà messo in croce. Sappiamo qual è la verità: ciascuno può liberare solo se stesso. E allora sbrigatevi, finché siete in tempo.

 

(*) Responsabile economico di “Noi con Salvini” (nella foto)


di Armando Siri (*)