Tim, brand nuovo che più antico non c’è

venerdì 31 luglio 2015


Vent’anni fa, nel luglio del 1995, nasceva Telecom Italia Mobile (Tim). L’agrodolce del successo del business e dei guai giudiziari. Il management del primo operatore mobile italiano finì subito in cella. La presentazione del libro “La banda larga” di Maurizio Matteo Decina, ha messo faccia a faccia i protagonisti dell’epoca, come il grande accusatore Elio Lannutti dell’Adusbef che ha chiesto pubblicamente scusa all’accusato, l’allora capo della Tim, Vito Gamberale. Quest’ultimo, per onestà di storia e cronaca, ha rivendicato la paternità Stet-Iri delle innovazioni digitali italiane a cominciare dai cellulari, dagli sms e della visione di cablare il Paese avuta da Ernesto Pascale, altro grandissimo processato del tempo.

Vent’anni dopo essere stata quasi venduta e poi fusa nella capogruppo Telecom, Tim consuma la sua rivincita. Il suo scudetto rossoblu con la scritta bianca si fa brand generale della prima Telco italiana, tredicesima al mondo. Tutte le aziende perseguono l’inevitabile profitto, ma ci sono marchi rispettati e contestati, antipatici e adorati. Gli opinion makers hanno trattato per anni diversamente due giganti IT, a identica impostazione proprietaria, come Apple e Microsoft. In Italia, l’antipatia pubblica era tutta contro lo Stato telefonico di Stet e Sip. Comprensibilmente non piaceva nemmeno alla politica, che lo voleva o doveva privatizzare. L’ostilità però non è venuta meno neanche dopo la privatizzazione, unica nel suo genere, di Telecom.

Il management negli anni è ricorso ad ogni acrobazia, dai Gad alle Lilli fino alle bionde Vanesse, per rendere “smart” la telefonia nazionale. Niente, mai un Governo gli è stato favorevole. Seguito a ruota dagli operatori di media, borsa ed università, i cui guru tecnologici più volte hanno elaborato piani per toglierle la rete di telecomunicazioni. Buon ultimo, anche il programma elettorale del 2012 di Matteo Renzi voleva una rete pubblica ultralarga da 100 mega senza Telecom Italia.

Diversi i motivi dell’istintiva antipatia. Per alcuni, la convergenza di Internet e tivù, di broadband e broadcast, degli schermi del telefonino e del televisore e delle relative aziende leader nel Paese. Per altri, la contrapposizione delle due e dei relativi mercati in rotta di collisione pubblicitaria. In generale, chi ha amato lo sviluppo tecnologico di Internet nel mondo ne ha odiato competenze e sviluppi di casa propria.

Così l’ostilità, a pelle, non è mai riuscita ad apprezzare risultati come la prima scheda telefonica prepagata, i record di velocità 3G e 4G, le leadership su gsm e banda larga mobile. Una devastante ignoranza tecnologica, maggioritaria, soprattutto in politica, ha applaudito specialmente alla caccia giudiziaria degli uomini delle tecnologie, ripetutasi diverse volte su tutti i principali settori delle telecomunicazioni. In parte, nell’immaginario collettivo, si è salvato il giovanile e giovanilistico scudetto del telefonino Tim. Forse perché uno dei pochi simboli positivi dell’Italia degli anni Novanta, novità propositiva per tutti, come una nuova Vespa o una nuova 500, raggio di sole nel buio delle macerie di “Mani Pulite”. Forse perché indentificato con il campionato di calcio o forse per testimoniare che non tutti gli scorpori interni di una grande divisione operativa nascondono l’intento di liberarsene.

L’idea però che il telefonino Tim sia nato con la rottamazione della storica economia di Stato, già liberale, fascista e democristiana, è storicamente sbagliata. Semmai ne è stato il canto del cigno, l’ultima genialità degli ex boiardi di Stato. L’autore de “La banda larga” è stato eletto vicepresidente di Asati, associazione dei lavoratori azionisti Telecom, concentramento degli ultimi sostenitori della Sip pubblica. Si tratta di Maurizio Matteo, figlio del Maurizio Decina ventennale guru delle telecomunicazioni e già commissario Agcom. In “Goodbye Telecom” del 2014, il giovane Matteo aveva seguito il solco della critica devastante dell’azienda, soprattutto accanendosi sulla gestione di Tronchetti Provera fino al ritiro del volume dalle librerie.

Ora il Matteo digitale ha invertito la rotta trovando nel broadband “opportunità e pericoli”. Si chiede se l’eventuale ritorno dell’infrastruttura delle telecomunicazioni in mani pubbliche non farebbe pagare la rete più volte ai cittadini. I grillini, suoi grandi sostenitori, lo applaudono assieme a Gamberale, alla nostalgia di Sip, Stet e Iri; e se si vuole, ai loro governi di riferimento, di Dc e socialisti. Quelli contro cui tuonava Beppe Grillo all’inizio dell’avventura satiricopolitica e che non a caso diceva di odiare i telefonini.


di Giuseppe Mele