Il petrolio negli abissi dell’oceano Artico

venerdì 9 ottobre 2015


La compagnia petrolifera anglo-olandese, Royal Dutch Shell, una delle otto più grandi ed importanti al mondo, ha annunciato nei giorni scorsi l’intenzione di cessare ogni attività di perforazione offshore nell’oceano Artico. L’annuncio ha colto di sorpresa esperti ed analisti finanziari, dal momento che solo lo scorso agosto Shell aveva comunicato che il giacimento denominato Burger J, nel Mare dei Ciukci, dove erano attive le trivelle del colosso anglo- olandese, aveva riserve stimate in almeno 15 miliardi di barili di greggio. Che cos’è dunque successo?

Il comunicato della Shell è stato piuttosto laconico: la compagnia ha deciso di sospendere immediatamente tutte le operazioni in corso nell’oceano Artico, perché le indicazioni sulla quantità di petrolio e gas trovato, seppure in ingente quantità, non sono sufficienti a giustificare ulteriori esplorazioni. Eppure solo poche settimane prima diversi top manager della Shell avevano annunciato con toni trionfalistici che le sofisticatissime - e molto dispendiose - analisi geologiche e sismiche quadridimensionali avevano rivelato quantità gigantesche di petrolio e gas, definendo il giacimento Burger J uno dei più grandi scoperti negli ultimi anni.

Le operazioni sono fin qui costate al colosso petrolifero oltre 7 miliardi di dollari, in un progetto che ha comportato rischi operativi elevatissimi, per la complessità dell’oceano Artico, e attirato sulla compagnia le condanne di tutti i movimenti ambientalisti del mondo. Rinunciare ora a questo mega programma rischia di danneggiare la reputazione di una società considerata tra le migliori al mondo per capacità scientifica, abilità tecnica e grande attenzione al rispetto dell’ambiente. Si stima che Shell dovrà spendere almeno 3 miliardi di dollari solo per ritirare le attrezzature, smontare le gigantesche trivelle e chiudere e mettere in sicurezza i pozzi.

Ad indurre Shell al dietrofront, secondo molti analisti, è stata la paura di un trend al ribasso del prezzo del greggio. In effetti i dirigenti della società anglo-olandese che avevano elaborato il progetto oceano Artico avevano previsto negli anni scorsi stime diverse circa l’andamento del prezzo del barile. I calcoli erano stati fatti su un periodo di quindici anni. Solo sotto i 50 dollari al barile del prezzo del greggio - situazione che veniva considerata altamente improbabile - i costi delle attività di perforazione nell’oceano Artico non sarebbero stati convenienti. Già a 70 dollari per barile il greggio del mare dei Ciukci sarebbe stato molto competitivo e a 110 dollari, una proiezione ragionevole fino a qualche tempo fa, la Shell avrebbe avuto margini di guadagno altissimi. Le ultime stime sulle proiezioni del prezzo del greggio nel 2030, elaborate con sofisticati programmi matematici dagli esperti ed analisti finanziari della Shell, hanno raffreddato l’entusiasmo degli undici membri del consiglio di amministrazione del colosso petrolifero. L’amministratore delegato, l’olandese Ben van Beurden, ha dunque proposto l’immediata sospensione delle operazioni nell’Artico, trovando l’unanimità dei consiglieri presieduti dall’americano Charles O. Holliday, nominato presidente del gruppo petrolifero solo lo scorso maggio.

Shell comunque manterrà i diritti sulle terre nel mare dei Ciukci, dove conta attualmente 275 blocchi offshore; le ingenti somme pagate al Governo americano per aggiudicarsi la gara per la concessione e il potenziale di quelle zone, considerate ancora strategiche dalla Casa Bianca, inducono i manager anglo-olandesi a mantenere la posizione, seppur al momento non operativa. Il prezzo del greggio che è da mesi più basso rispetto alle aspettative e la conseguente riduzione dei margini di profitto, hanno spinto la compagnia petrolifera ad avviare anche una rigida spending review interna. Il mare dei Ciukci, dove Shell ha la concessione, è un tratto dell'oceano Artico, di fronte all’Alaska e prende il nome dalla popolazione indigena autoctona che abita i territori circostanti e che ancora vive di pesca e di caccia alle balene.

In un mondo energetico in cui i Paesi produttori, membri dell’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries), controllano il 72 per cento delle riserve certe di petrolio, l’oceano Artico, ancora in gran parte inesplorato, avrebbe potuto essere per gli Stati Uniti e per gli altri Paesi che vi si affacciano, un’incredibile opportunità. Solo nelle acque dell’Alaska si stima possano trovarsi riserve per 25 miliardi di barili di petrolio. Ecco perché le grandi compagnie petrolifere, da Shell a ExxonMobil a BP e anche la nostra Eni, hanno mostrato grande interesse a quelle aree. Le condizioni climatiche per le attività di esplorazione e perforazione sono però proibitive, con la navigazione possibile solo per quattro mesi all’anno, con continue tempeste e iceberg pericolosi in superficie. Il governo statunitense, con l’amministrazione Bush, indisse la prima asta per la concessione dei diritti di esplorazione nei territori americani dell’oceano Artico nel febbraio del 2008. Successivamente l’amministrazione Obama ha rinnovato le concessioni e messo all’asta altri territori; com’era già successo per Bush, anche Obama si è attirato però le dure critiche dei movimenti verdi, in America e altrove. L’ex vice presidente Al Gore è arrivato a definire folle la politica di sfruttamento petrolifero dell’oceano Artico decisa da Obama. Anche l’attivismo ambientalista ha, dunque, sicuramente pesato sulla decisione di Shell d’interrompere le attività nell’Artico.

Greenpeace, per proteggere l’habitat dei trichechi, minacciati dalle trivellazioni petrolifere, ha condotto azioni dimostrative, impedendo per diversi giorni con barchini e gommoni e perfino kayak l’accesso alle piattaforme offshore della Shell. La compagnia anglo-olandese è stata poi citata per danni all’ambiente da organizzazioni e gruppi ambientalisti in numerosi tribunali statunitensi; i processi sono stati lunghi e molto costosi e hanno comunque sempre visto riconosciuti i diritti acquisiti da Shell alle esplorazioni petrolifere.

Ciliegina sulla torta, Hillary Clinton, candidato presidenziale alle elezioni del prossimo anno, ha già annunciato di non essere favorevole alle trivellazioni nell’Artico e che, qualora eletta, si opporrà ad ulteriori concessioni. Prezzo basso del petrolio, difficoltà tecniche, proteste ambientaliste e un probabile inquilino della Casa Bianca anche contrario: in queste condizioni Shell non poteva che interrompere. L’oceano Artico può aspettare e i trichechi potranno, per il momento, vivere in pace.


di Paolo Dionisi