TTIP, una scelta per l’Europa

venerdì 10 giugno 2016


Il 10 maggio scorso l’amico Massimo Negrotti mi ha scritto: “Non pensi di scrivere un articolo sul Transatlantic Trade and Investment Partnership e i relativi oppositori?”.

Da un po’ ci stavo pensando, accumulando idee e testi scritti, combattuto tra la convinzione che l’Europa si potrebbe salvare soltanto con un legame sempre più stretto - economico, politico, culturale - con l’America, e la constatazione della sua (quasi) incapacità di abbandonare la sua concezione ideologica di vita e il tipo di società tutelante che ne deriva. Ho risposto col mio consenso e con due articoli che avevo già pronti in bozza per l’argomento, ed egli mi ha subito risposto: “Caro Giuseppe, sulla ‘società frantumata’ sono pienamente d’accordo. Personalmente avrei insistito di più sul ruolo dell’innovazione (e degli innovatori). La tanto declamata e auspicata ‘crescita’ dipende infatti dalla propensione delle imprese a produrre cose nuove e non dalle manipolazioni monetarie della Banca centrale europea. Infatti, se la domanda aumentasse, in assenza di nuovi prodotti e servizi, le imprese, tutt’al più, tornerebbero alla quantità di produzione precedente alla crisi così come il Pil, rimanendo quindi in ritardo rispetto a Paesi più dinamici. È dunque solo dall’innovazione che il mercato può ripartire. Poi ho letto il secondo articolo e ho visto che l’innovazione ne è al centro. Molto bene”.

Come base di un mio lavoro sul Ttip io pongo la serie dei nove articoli che ho pubblicato nel 2015 su “L’Opinione”, che scartano le anatre zoppe per le star, i sistemi e gli sviluppi lineari per quelli esponenziali, un egualitarismo senza motivazioni e le rendite di posizione, e che constatano la progressiva divaricazione economica, tecnologica e culturale tra Europa ed Usa. Ma occorre inoltre tenere presente che l’America ha in atto una nuova rivoluzione industriale che va ben oltre l’informatica (“The Second American Industrial Revolution” By John Thomas, TalkMarkets Thursday, april 28, 2016), che accetta il futuro delle nuove professioni e di come gestirle, che non solo accetta il cambiamento, anche se sovverte la società, ma che lo favorisce. D’altra parte le scelte che l’Europa compie, direttamente o inconsciamente, sono quasi sempre ideologiche: rifiuto degli Ogm, sviluppo del solare-fotovoltaico quale energia verde quando era ancora molto caro e la sua tecnologia primitiva, mentre in America gli Ogm si studiano, producono e vendono ora e il fotovoltaico viene adottato solo oggi, con tecnologie sempre più sofisticate, e installate a un tasso assai superiore a quello europeo, perché, col nucleare, è ormai l’energia più a buon mercato e “verde” e il mio amico Peter Diamandis scrive di “disrupting solar”.

La divaricazione più grave tra Europa e America è la concezione sui valori e i modi di vivere. In America il benessere delle famiglie sta migliorando, anche se di poco, come indica l’ultimo rapporto del Federal Reserve Board sul benessere economico delle famiglie, ma in Europa no. Nello stesso tempo i privati americani sono disposti a investire in opere gigantesche come lo “Hyperloop”, il treno da oltre 1000 km/ora, che consente di andare da Los Angeles a San Francisco in 35 minuti, da Montreal a Toronto in 30 minuti, da Dubai ad Abu Dhabi e da Londra a Parigi in 15 minuti. In Italia invece non si vuole la Torino-Grenoble che non arriverebbe ai 200 km/ora. Il lavoro è un altro esempio emblematico: in Europa quasi tutti vogliono lavorare il meno possibile e andare in pensione il più presto, e così si investono i soldi per le pensioni e non per innovare, creare e pagare nuovi posti di lavoro. Inoltre, basta cercare di rendere un po’ più flessibile il lavoro, a tutto beneficio di nuova occupazione, e la gente si rivolta, come in Francia, contro il Jobs Act. In America Bloomberg dice “I’ll never retire”: Americans break record for working past 65 years, il 20 per cento degli ultra 65enni lavora (U.S. Bureau of Labor Statistics), il 27 per cento dice “will keep working as long as possible”, il 12 per cento say they don’t plan to retire at all.

L’America e Barack Obama vogliono liberalizzare e moltiplicare mercato e commercio, a partire da Usa-Asia, e il fulcro della politica americana in Asia è la Trans-Pacific Partnership (Tpp), l’area dell’accordo di libero scambio. Analogamente si sta discutendo sul Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), l’accordo commerciale America-Europa. Come è banale immaginare, l’Europa sta ponendo ostacoli per la difesa di aspetti magari giusti e doverosi, ma che creano vincoli e freni ad un processo straordinario di unificazione in grado di far esplodere esponenzialmente mercato ed economia dell’Occidente (e del mondo).

Sicuramente l’Europa dovrebbe rinunciare a parecchie sue concezioni ma ne uscirebbe più forte e quindi anche più capace di difenderne di fatto alcune che, altrimenti, potrebbe difendere solo a parole, come avviene per tutti i deboli. Ecco allora gli attacchi al “Trattato transatlantico” che, come afferma il libro di Alain de Benoist (Arianna Editrice), condizionerà le nostre vite e, in nome del libero mercato, impone che l’Europa svenda  giustizia sociale, libertà, autodeterminazione, tutela ambientale e salute di noi cittadini. Lo strumento di questa distruzione sarebbe il Trattato Transatlantico per il commercio e gli investimenti dietro il quale si nasconde un pericolo senza precedenti per le nostre vite: la creazione di un mercato unico tra Stati Uniti ed Europa dove l’unica regola è il profitto.  

Se l’Europa rinunciasse all’accordo Ttip, l’America si legherebbe sempre più alla Cina e all’Asia Orientale, Paesi tutti lavoratori seri, dinamici e con antiche culture ancora valide perché capaci di rinnovarsi, mentre all’Europa non rimarrebbe che aggregarsi innanzitutto con i Paesi mediterranei, quelli del Medio Oriente e dell’Asia occidentale, oltre all’infida Russia e agli ex Paesi dell’Unione Sovietica, all’Africa centromeridionale, più affidabile ma anche la più arretrata di questo gruppo. Molti anni fa volevo scrivere un articolo “Dimenticare il Mediterraneo” ma non me lo accettò nessuno; oggi prima o poi lo si dovrà fare.


di Giuseppe Lanzavecchia