Alla prossima crisi chi salverà le banche?

Otto anni dopo il crollo di Lehman Brothers che ha scatenato una crisi bancaria globale, le maggiori banche europee sono ancora cariche di miliardi di crediti inesigibili. Diciamo la verità, sono tutte decotte e oggi si capisce meglio a cosa è servito il Quantitative easing: non aveva nulla a che fare con lo stimolo economico ma serviva a fornire liquidità a strutture insolventi per evitare che dichiarassero fallimento.

L’ultimo stress test dell’Eba (European Banking Authority), il terzo dal 2009, è stato ancora un volta il tentativo di dare un falso certificato di salute a istituti moribondi. Particolarmente grave è la situazione italiana con crediti inesigibili pari al 20 per cento del Prodotto interno lordo che, in realtà, incidono per il 40 per cento perché riguardano solo il settore privato, il 50 per cento del prodotto lordo. Ma vediamo quale è la causa del dissesto generale.

Negli ultimi decenni il sistema bancario è cresciuto senza limiti e in modo canceroso. All’origine è l’assenza della differenziazione fra banche commerciali e banche di investimento. È il concetto di banca universale che ha dominato in Europa, la banca senza separazione tra attività di credito ai privati e investimenti finanziari, tra l’attività dedicata al credito a famiglie e imprese, e quella dedicata alla speculazione. Non è per caso che le operazioni finanziario-speculative superano di gran lunga quelle dei prestiti alla clientela. L’assenza di questo spartiacque ha aperto la strada a fusioni e concentrazioni nel settore creando mega-banche “troppo grandi per fallire” che, appunto a causa della loro dimensione, hanno dovuto essere protette e salvate ad ogni costo. La banca universale funzionerebbe solo a patto di avere cospicue riserve di capitale, ma poiché nelle operazioni spericolate nessuna banca vuole rischiare il proprio capitale ma quello degli altri, si sono indebitate fino al collo. Banca universale più alta leva finanziaria è stata la formula del collasso. Le banche troppo grandi per fallire hanno creato una situazione di enorme e destabilizzante rischio asimmetrico, che ha loro permesso la libertà di assumersi grossi rischi di investimento: fare bottino quando tutto andava bene, mentre quando andava male di scaricare le perdite sui privati. Così questi ultimi sono finiti per diventare i salvatori impliciti delle banche dissestate. Quello creato dal settore bancario è uno dei drammi della nostra epoca. Se, al limite, si fosse stabilito di corrispondere ai sostenitori impliciti delle banche un tasso di interesse adeguato e comprensivo del rischio di dissesto, le cose avrebbero potuto funzionare: dovendo remunerare in modo congruo la provvista di risparmio privato che, ricordiamo, è la fonte di finanziamento dell’attivo del loro bilancio, le banche ci avrebbero pensato due volte prima di dilapidarla in avventure finanziarie. Il contesto di denaro gratuito negli ultimi anni ne ha invece incentivato la frenesia speculativa. Le cose sono peggiorate, poi, per tutti, con l’imposizione dei interessi negativi: disarmando, da una parte, ancora di più i privati e costringendoli ad acquistare titoli spazzatura per avere rendimenti decenti; dall’altra minando la redditività delle banche stesse.

Alla luce di quanto sopra, gli stress test condotti dall’Eba su 51 grandi banche europee sono stati una finzione per rassicurare il pubblico che la situazione era migliore di quella del 2008 e del 2010 e per sostenere i corsi azionari. Le banche sono state quasi tutte promosse perché i test sono stati concepiti in modo da non bocciarle e non creare panico. Gli stress test si fanno per valutare la resistenza delle banche a shock sistemici. Ma gli esaminatori hanno simulato una contrazione di qualche punto percentuale dei Pil europei per i prossimi due anni ritenendo che una disponibilità di capitale “anti-ciclico” del 7 per cento rispetto al totale dell’attivo sia sufficiente alle banche per tirare a campare. L’Eba ha bellamente ignorato che gli shock sistemici possono venire dal settore stesso oggetto di indagine. Che dire ad esempio della Deutsche Bank, che ha derivati venti volte il Pil tedesco? La copertura del 7 per cento del capitale di tutto il sistema bancario equivale a meno di un pannicello caldo. Se si considera il capitale a disposizione delle banche e lo si rapporta alle attività ponderate per il rischio, tutte avrebbero dovuto essere bocciate. Secondo l’Eba, le perdite che le banche dovrebbero fronteggiare in caso di contrazione economica derivano da due tipi di rischio: il rischio di illiquidità e il rischio di credito. Il primo, che riguarda l’insolvenza nel breve periodo, a parere degli esaminatori non desterebbe preoccupazione perché c’è la banca centrale che può porvi rimedio. Per cui dovrebbe preoccupare solo il rischio di credito; il rischio che le controparti delle banche non pagando i debiti causino loro altre perdite finanziarie. L’Eba ha dunque ipotizzato che la maggior parte delle perdite possa provenire solo da questi due rischi. Ma si è dimenticata di valutare il terzo tipo di rischio, quello più importante, il “rischio mercato”, il rischio che il valore degli strumenti finanziari all’attivo delle banche possa subire delle perdite. Questo rischio attiene alla svalutazione dei titoli o al default dei governi, che falcidierebbe i bilanci come è già successo nella crisi del 2009, intensificatasi poi negli anni successivi e mai risolta. Non averlo messo in conto è grave perché questo rischio non riguarda la liquidità a breve, ma la solvibilità a lunga scadenza rappresentata dalla situazione patrimoniale delle banche che si valuta stimando il reale valore di mercato delle attività in bilancio. L’Eba ha dunque escluso a priori variazioni al ribasso dei debiti sovrani in una situazione, attuale e prospettica, che è molto peggiore di quella degli anni passati. Simulando uno scenario di default anche di un solo Paese e le ramificazioni conseguenti, la solvibilità delle banche andrebbe a farsi friggere ed emergerebbe che capitale del 7 per cento rispetto all’attivo, oltre a non essere sufficiente è anche sovrastimato perché ignora i 3 trilioni di euro e passa di bond con rendimenti negativi finora emessi in Europa e di cui la maggior parte trova riparo nei bilanci bancari. Ci vogliamo prendere in giro e credere che tali strumenti finanziari che comportano perdite secche e sicure siano “attivi” e non passivi tossici? E che possano costituire collaterale per prestiti?

Tutte le mega-banche europee sono insolventi e non ci vuole molto a capire cosa possa succedere in una nuova crisi di debiti sovrani, quando lo standard di solvibilità bancaria è quello della fallita Lehman Brothers. Ci chiediamo allora cosa possa salvare le banche di fronte ad una prossima crisi dal momento che non esiste più un sistema in grado di farlo in quanto neppure capace di salvare se stesso. Altrimenti per quale motivo le banche centrali starebbero preparando l’opzione nucleare del denaro dall’elicottero? L’unico banchiere che percepisce come stanno le cose è Sergio Ermotti, chief executive dell’Ubs. Alla giornalista della Cnbc che in una breve intervista gli ha chiesto come vede il futuro, Ermotti ha risposto: “C’è ben poca visibilità su tutti i fronti, sia dal punto di vista macroeconomico che geopolitico. Non avverto alcuna sensazione di sollievo guardando al futuro”.

Se non l’avesse detto un banchiere sarebbe l’understatement del secolo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:30