Lavorare facendo la fame. Sembra una commedia dell’assurdo. Ma non lo è. Oggi, grazie alla globalizzazione e alla quasi scomparsa del posto fisso garantito ex articolo 18, il precariato è la norma. Scomparsa la “Liretta” campione di pole position della corsa alla svalutazione competitiva degli anni 80-90 ante Maastricht, a seguito dell’introduzione dell’Euro e dell’ingresso (senza contropartite e reciprocità!) della Cina nel Wto, si è distrutta la manifattura italiana e il suo mondo del lavoro. I risparmi e il potere di acquisto delle famiglie si sono all’istante dimezzati in valore, mentre il costo degli immobili raddoppiava le sue quotazioni di mercato nei primi sei mesi del 2002, anno del change-over. Distrutte le sicurezze dello stipendio fisso, tassato alla fonte e, quindi, senza scampo davanti al fisco, falcidiato da un cambio a poco più di 1900 lire per un euro, che cosa rimane a questo popolo di naufraghi, internauti perdigiorno e iperprecarizzati? Lavoretti, sempre lavoretti, come ci suggerisce l’interessante saggio omonimo di Riccardo Staglianò, Editore Einaudi 2018. Oggi, per moltissimi giovani e non, il sogno del “vorrei mille euro al mese” rimane un miraggio. Ma la cosa curiosa è un’altra. 

Grazie alla “gig-economy”, controllata dalla implacabile dittatura delle Major della Silicon Valley, come Google, Facebook, Uber, Airbnb, Amazon, etc., quelli che una volta erano semplici consumatori di social network, grazie all’incantesimo della “piattaforma magica” diventano padroni del proprio lavoro, ma senza guadagnare un solo cent in più  per coprire le spese di gestione avendo messo gratuitamente a disposizione del mondial contractor le loro proprietà: automobili private per Uber; case di abitazione per Airbnb. Esempio parlante: se si fatturano 100 euro a un passeggero di Uber (con il quale avete sottoscritto un contratto capestro, per cui state al volante 14 ore al giorno per guadagnarci appena la giornata), quest’ultima ne trattiene 25 per sé, di cui soltanto meno di 1 euro (sì, avete capito bene!) sarà restituito sotto forma di tasse ai Paesi in cui opera, America compresa. Questo grazie alle solite triangolazioni, per cui i guadagni sono riversati sottoforma di royalties ad altre società collegate, che operano in paradisi fiscali nei quali, guarda caso, questo tipo di profitti non sono tassabili!

Uber, badate bene, ha solo qualche decina di persone effettivamente al suo libro paga, pur guadagnando fortune pari al Pil di alcuni piccoli Paesi sviluppati! Già, ma come gira questa immensa macchina che produce beni intellettuali impalpabili (i famosi algoritmi)? Chi la mantiene in vita e fa le... pulizie in casa? Prendiamo Facebook: grazie ad altre Major che sfruttano il lavoro di precari anche molto qualificati in tutto il mondo (ingegneri indiani per esempio), con compensi orari pari alla metà di quello della vostra colf, decine di migliaia di specialisti, perdendo la vista dietro gli schermi dei loro pc, sorvegliano che il fango di tutto il mondo venga eliminato dalla circolazione il più rapidamente possibile. Dato che tornare indietro non si può, esistono vie d’uscita alla perdita d’occupazione? Una parte della risposta sta nel recupero della immensa evasione fiscale da parte delle Major; nel reddito di cittadinanza e nella più equa ripartizione sociale degli immensi guadagni conseguiti dalle imprese attraverso la robotica e l’automazione dei processi di fabbricazione. Ma a me sembra veramente un po’ poco.

Aggiornato il 20 febbraio 2018 alle ore 08:09