Confsal, alleare lavoro e impresa

mercoledì 28 febbraio 2018


Lavoratori e datori di lavoro in Italia , e in genere in Europa, sono tutti su una stessa barca. Tanto che oggi Marx potrebbe lanciare loro un appello congiunto a unirsi sulla falsariga di quello del famoso “Manifesto” del Partito comunista.

E l’intelligenza di quelle associazioni come i sindacati, e in genere di tutti i cosiddetti corpi intermedi - “che non vanno buttati come non va buttato il  bambino con  l’acqua sporca”, per usare le parole del nostro direttore Arturo Diaconale nel breve ma intenso saluto rivolto ieri al convegno romano della Confsal (Confederazione generale dei sindacati autonomi dei lavoratori) - dovrà essere quella di adeguarsi alle nuove sfide sull’agguerrita concorrenza internazionale e sulla produttività interna per reggere all’urto brutale della mondializzazione. Che per ora resta selvaggia, cioè senza regole, in tutto il mondo conosciuto. E quale migliore maniera di adeguarsi, una volta dismesse le ideologie e le reciproche diffidenze, che promuovere una quasi santa alleanza con obiettivo la crescita e l’occupazione?

E infatti  di questo discettava il leitmotiv introdotto nell’intervento  d’apertura del segretario della Confsal Angelo Raffaele Margiotta, nel convegno tenutosi all’albergo Cicerone moderato dal direttore di “Economy” Sergio Luciano. Auspicava, anzi,  proprio di questa presente – nei fatti – e futura – nelle strategie – alleanza. Un’alleanza che due ore più tardi l’economista “comunista” Stefano Fassina avrebbe ribattezzato “per la domanda interna” in un intervento veramente molto chiaro e interessante, almeno nella parte che sottolineava quali fossero oggi in materia i veri problemi che contrappongono l’Europa a ciascuno dei suoi stati membri.

Fassina infatti, polemizzando con l’ex premier Romano Prodi – “fa il passante” – ha rotto l’incantesimo delle slides. Contenenti le diagnosi e le cure snocciolate da super burocrati come Stefano Patriarca, tecnico della presidenza del consiglio, o da professori come Alberto Brambilla, esperto di previdenza dato per arruolato al salvinismo, o da Antonio Lopes, docente di economia politica all’Università di Napoli, o persino da addette ai lavori come Serena Sileoni, vicedirettore dell’Istituto Bruno Leoni (che ha spiegato come funziona la flat tax “quella vera, non quella delle promesse elettorali”). E Fassina ha potuto riportare tutti alla realtà semplicemente ricordando che “sinché nella Ue ci saranno direttive che permettono addirittura il dumping del costo del lavoro dentro casa nostra”, tutti i discorsi sul rilancio dell’occupazione resteranno lettera morta.

Permettere a un’impresa, ad esempio slovena, di investire in Italia applicando la disciplina anche economica che regola i propri contratti di lavoro, e non quella che regola i  nostri , significa gareggiare con l’handicap. E questo – secondo Fassina – l’Europa che lui vorrebbe cambiare (magari con cure che rischiano di ammazzare il malato, vedi la tassa patrimoniale) lo permette perché “guarda solo all’export”, fregandosene “della crescita della domanda interna”.

Ecco allora l’importanza di questi corpi intermedi, sottolineata da tutti gli astanti e perno dell’intervento di Diaconale e di Margiotta, che lungi dal dovere accettare di venire eliminati all’insegna del nuovo che avanza, rivestono oggi come oggi l’importante funzione di cuscinetti tra il mondo del lavoro e quello dell’impresa. E insieme di “trait d’union” tra le medesime due realtà costrette ad allearsi nel nome della produttività per non venire tutti noi travolti dall’entrata nel mercato globale delle realtà super competitive dell’ex Terzo Mondo. E anche certi luoghi comuni andrebbero sfatati. Perché se è vero come è probabilmente vero quel che dice Brambilla che negli ultimi venti anni il tasso di competitività italiano è salito dell’1,2 per cento, a fronte del 12 di  quello dell’Europa a 27, è altrettanto certo che la nostra pubblica amministrazione continua a investire negli aiuti alle imprese  poco più dello 0,20 per cento del Pil, da comparare allo 0,60 della media Ue.

Insomma c’è da rimboccarsi le maniche e lavorare parecchio nella prossima legislatura anche per cambiare le direttive europee che più ci penalizzano dal lato della “concorrenza sleale autorizzata”, a favore degli altri Paesi dell’Europa a 27, soprattutto dell’est. E questo senza per forza dovere ricorrere a politiche intergovernative fatte di dazi e anacronistiche chiusure.


di Dimitri Buffa