Sud: la polpetta avvelenata del reddito di cittadinanza

La politica italiana è bizzarra! Ci si accapiglia sulle formule d’improbabili governi e poco o nulla si dice del risultato elettorale che ha consegnato al futuro prossimo un’Italia drammaticamente spaccata a metà. È come litigare per il pelo ignorando la trave che divide il Paese. La trave, fuori di metafora, si chiama ripresa del dualismo economico. Che è poi il convincimento coltivato nel passato da alcuni economisti e avversato da altri che lo sviluppo della nazione debba fondare sulla rappresentazione di un Paese diviso in due macro-aree tra loro disomogenee: l’una avanzata, l’altra arretrata. In breve, la storia dei rapporti tra il Sud e il Nord negli oltre 150 anni dall’Unità d’Italia.

Tuttavia, l’impietosa fotografia che restituisce l’immagine di una comunità separata è uno schiaffo a tutti i tentativi prodotti negli ultimi decenni di avviare il Mezzogiorno ad un percorso di convergenza con il sistema produttivo del Nord. I cantori della globalizzazione hanno dato per scontato che, nel tempo storico del mercato unico mondiale, la piccola Italia dovesse “fare sistema”. La realtà è che siamo al ritorno al passato con un Movimento 5 Stelle il quale indica ai meridionali la scorciatoia del reddito di cittadinanza. Ma si tratta di un rimedio che porta a sbattere. E non soltanto perché è incompatibile con la sostenibilità dei conti pubblici. Non è questo il vulnus più grave. La proposta del reddito universalmente garantito, sebbene risponda a un’istanza di equità sociale fortemente avvertita tra le fasce deboli della popolazione, preclude l’accesso a quelle misure strutturali che esse sole sarebbero in grado di colmare il gap economico-produttivo esistente tra le due aree geografiche del Paese.

Non è pensabile che si torni indietro ai tempi delle opposte vocazioni: il Settentrione che seguendo l’apertura globale dei mercati traina la crescita economica grazie ai numeri dell’export mentre il Meridione si confina al ruolo di serbatoio di manodopera disponibile a basso costo per le aziende del Nord. Ciò che è stato vero nello scorso secolo non può essere rivissuto oggi per molte valide ragioni. In primo luogo perché con la libera circolazione transfrontaliera delle persone non è prerogativa del Sud fornire forza lavoro. Inoltre, il serbatoio naturale di inoccupati disponibili, tradizionalmente composto da autoctoni, dopo la crisi migratoria è stato saturato da soggetti idonei ai lavori di bassa qualità provenienti da altre aree geografiche del mondo. La concorrenza al ribasso nel mercato del lavoro ha scatenato una sorta di guerra dei poveri combattuta sul fronte salariale. Ma, aspetto decisivo, l’innovazione tecnologica alla quale le imprese impegnate nella competizione globale si sono aperte ha determinato la caduta verticale della domanda di forza lavoro non qualificato. Benché il sistema industriale del Nord abbia ripreso a crescere i suoi obiettivi di medio-lungo termine escludono la possibilità che si possa tornare a ritmi di assorbimento della manodopera disponibile al Sud pari a quelli che animarono gli anni del boom economico.

Per farcela il Mezzogiorno dovrebbe reggere sulle proprie gambe. Ma ciò non è possibile, almeno nel breve termine. Perché vi sia uno stadio avanzato di sviluppo in uno specifico territorio è necessario che interagiscano alcuni fattori essenziali: crescita della popolazione, sviluppo tecnologico asservito ai processi produttivi, espansione rapida dei consumi di beni durevoli, aumento della circolazione delle merci, fluidità del credito, afflusso di capitali esterni, potenziamento delle reti infrastrutturali, dei mezzi e delle vie di comunicazione. Salvo poche eccezioni, chi può dire che nel Sud agiscano anche solo alcuni dei fattori citati? La fase del dopo-crisi si caratterizza per un rilancio del modello di sviluppo trainato dalle esportazioni. Ma tale modello è fallace se tocca una parte del Paese e non l’intero territorio. Un esempio, per intenderci. Prendendo a campione la Campania per il Sud e il Veneto per il Nord, riguardo all’interscambio commerciale osservato nel periodo gennaio-settembre 2107 (fonte: Italian Trade Agency–Ice), si riscontra quanto segue: il Veneto ha totalizzato 45 miliardi 407 milioni 609mila euro in export contro 34 miliardi 499 milioni 226mila euro di import. Il saldo attivo è di 10 miliardi 908 milioni 383mila. La Campania, invece, ha un volume di export di 7 miliardi 636 milioni 371mila euro contro un import di 9 miliardi 630 milioni 371mila euro. Saldo negativo per 1.994.276 euro. Se si tiene conto che la popolazione residente in Veneto sfiora i 5 milioni mentre quella in Campania i 6 milioni, si ricava che nella regione meridionale vi sono 934.900 persone in più rispetto all’omologa entità territoriale del Nord.

Dunque, chi osa dire che l’export sia la soluzione anche per il Sud andrebbe inseguito con un forcone. Se la dura realtà ci consegna inevitabilmente al modello di sviluppo trainato dall’esportazione allora è necessario che il processo del dualismo produttivo si completi restituendo al Mezzogiorno la vocazione a servire il mercato interno che per sue caratteristiche strutturali non è vincolato a stringenti logiche innovative nei processi produttivi. Almeno nei settori nei quali è minore l’impatto della concorrenza di bassa qualità afferente dalle economie emergenti. Il più lento adeguamento agli strumenti offerti dall’innovazione tecnologica consente alle imprese di assorbire una maggiore quantità di manodopera a condizioni salariali in linea con la qualificazione dei profili lavorativi richiesti. Perché ciò avvenga è necessario riattivare il circuito dei consumi interni. Alla politica viene richiesto di liberare risorse manovrando in frenata la leva fiscale, non certo di gonfiare a dismisura il capitolo dell’assistenzialismo di Stato. Al contrario delle inesattezze propalate dalla vulgata mediatica non c’è un Nord che vuole meno tasse contro un Sud che chiede più prebende. C’è solo un sistema produttivo che deve essere alleviato dall’oppressione fiscale per ripartire, secondo i propri mezzi e possibilità, allo stesso modo a Bolzano come a Siracusa. Ma non sono i Cinque Stelle i soggetti giusti per rimettere in moto la macchina.

Aggiornato il 15 marzo 2018 alle ore 07:31