Grandi opere e pensiero magico

È proprio vero che è sulle grande opere che si decide il futuro del Paese? Non c’è il rischio che le grandi opere stesse non diventino una sorta di formula magica, dei talismani che solo a strofinarli dovrebbero, magicamente, produrre crescita? Davvero l’analisi costi benefici degli investimenti pubblici, invocata dal ministro Danilo Toninelli e affidata all’economista Marco Ponti e ai suoi collaboratori, è una foglia di fico per giustificare una poco onorevole marcia indietro? Le grandi opere implicano un impegno massiccio di risorse pubbliche, cioè di denaro dei cittadini. L’idea che le infrastrutture siano la via più sicura per lo sviluppo di un Paese poggia su un presupposto a cui ormai nessun economista crede più: ossia che il “moltiplicatore” dell’investimento sia sempre e comunque significativamente superiore a uno.

Al contrario, sappiamo dall’esperienza – e in Italia dovremmo proprio saperlo bene – che le opere sono utili quando sono utili, e quando sono utili generalmente si ripagano almeno in vasta misura. Le opere inutili – le famose cattedrali nel deserto – hanno un moltiplicatore inferiore a uno: cioè rappresentano uno sperpero di risorse, una loro distrazione da utilizzi potenzialmente più produttivi. Proprio quel che un Paese come il nostro non può permettersi.

Naturalmente, l’analisi costi e benefici non fornisce necessariamente la risposta definitiva. Qualunque risultato va preso con cautela, perché poggia su poggia su assunti spesso estremi e perché implica in ogni caso ipotesi molto forti sull’evoluzione dell’economia su orizzonti temporali molto lunghi. Inoltre, la scelta di realizzare o meno un’opera ha sovente una dimensione politica e sociale che prescinde da quella economica. A maggior ragione, però, l’introduzione di rigorose analisi dei costi e dei benefici a monte dello stanziamento delle risorse per le grandi opere dovrebbe essere vista con favore: essa offre informazioni aggiuntive sulla base delle quali chi deve potrà deliberare. Deliberare, ricordiamolo sempre, con i soldi di tutti.

Rifiutare l’analisi costi benefici per timore che essa possa smentire le aspettative (o che essa finisca per mettere in discussione il valore salvifico grandi opere) non è un segno di modernità, ma il riflesso di una convinzione quasi religioso: l’immacolata concezione della spesa pubblica.

(*) Editoriale a cura dell’Istituto Bruno Leoni

Aggiornato il 07 agosto 2018 alle ore 12:03