A cosa servono flat tax e reddito di cittadinanza

Possono stare insieme conti pubblici in ordine e riforme contenute nel programma di Governo – ovvero, flat tax e reddito di cittadinanza? Esperti e giornali tendono a presumere che il problema sia il “cosa”. Forse invece è il “come”.

In primo luogo, come abbiamo sostenuto già nella nostra proposta “Venticinque per tutti”, flat tax e reddito di cittadinanza non sono necessariamente policy alternative l’una all’altra: sono invece complementari, se l’obiettivo è ridisegnare nel suo complesso il sistema fiscale. Una misura di contrasto alla povertà serve infatti a completare, riequilibrandolo sotto il profilo distributivo, il disegno di una imposta personale semplificata e caratterizzata da una singola aliquota (se flat tax fosse: il disegno governativo, da questo punto di vista, pare molto poco flat).

Punto secondo, contrariamente a quanto tutti i ministri dell’Economia hanno pensato negli ultimi anni, interventi marginali tendono ad essere straordinariamente faticosi dal punto di vista del reperimento delle risorse e assai poco efficaci nel determinare le aspettative di famiglie e imprese. Questo è ancora più vero nel caso di un governo, quale quello del nostro Paese, che ha abituato i suoi cittadini alla confusione, all’arbitrio fiscale, al continuo rimescolamento delle carte.

Un autentico disegno riformatore deve mettere in discussione comparti importanti del bilancio pubblico, riorganizzarli, creare nuova credibilità per il sistema tributario nel suo complesso. Questo punto sembra essere molto chiaro al ministro dell’Economia che non a caso ha associato l’attuazione del reddito di cittadinanza al ripensamento di molte delle misure di contrasto alla povertà e di supporto al reddito oggi in essere.

E qui veniamo al terzo punto. A che serve una riforma come quella di cui discutiamo? Nella discussione sul fisco nell’Italia di oggi c’è un non detto che pesa. Esattamente come nel passato, anche nell’immediato passato, quando si è discusso di misure di assai inferiore portata, ridurre le imposte sembrerebbe essere semplicemente lo strumento principale di una politica economica keynesiana di sostegno della domanda. Ma c’è oggi in Italia un problema di sostegno della domanda? Con una economia tornata a crescere poco – non c’è dubbio – ma in linea con il proprio (deludente) potenziale? Ed è ragionevole riformare il sistema fiscale per sostenere la domanda? E quante riforme fiscali dovremmo fare per sostenere perennemente la domanda?

La flat tax dovrebbe essere altro. È lo strumento per innalzare il tasso di crescita potenziale dell’economia che è da quasi trent’anni il vero tallone d’Achille della nostra economia. Una politica strutturale fatta di un fisco più leggero, uno Stato meno invadente, una pubblica amministrazione concentrata sul suo core business. In questo senso, l’introduzione della flat tax non è sinonimo di ampi disavanzi. Anzi, per certi versi, ampi disavanzi pubblici trasmettono messaggi contraddittori rispetto a quelli impliciti in una flat tax: in quanto “promettono” implicitamente futuri incrementi di imposte, in quanto non mutano le aspettative e le prospettive di medio periodo di famiglie e di imprese, in quanto non implicano uno Stato più discreto e leggero.

È proprio perché c’è bisogno di una riduzione del peso dell’operatore pubblico nell’economia e nella società italiane che abbiamo bisogno di una significativa riduzione della pressione fiscale (tale almeno da portarci almeno sulla media Ue). Ma bisogna che questa riduzione non incida sul disavanzo e venga coperta da tagli di spesa di entità sostenibile. Altrimenti, il segnale dato ai contribuenti sarebbe nullo: perché l’aumento delle spese, gli italiani ormai lo sanno, prelude necessariamente, oggi o domani, a un ulteriore inasprimento di una pressione fiscale già assurdamente elevata.

(*) Editoriale a cura dell’Istituto Bruno Leoni

Aggiornato il 04 settembre 2018 alle ore 12:08