Def, molto rumore per nulla

Al momento, agli atti, c’è solo la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza. Eppure, gli specialisti in catastrofi sono già all’opera. A sentir loro l’Apocalisse sarebbe alle porte. Tutto per quel 2,4 per cento nel rapporto deficit/Pil fissato dal Governo giallo-blu. Francamente, a noi sembra che un tantino si esageri. Sarebbe opportuno attendere la presentazione dell’articolato della Legge di Bilancio per conoscere l’effettiva portata delle misure finanziate in deficit. Per ora, la manovra annunciata non è che scaldi i cuori visto che si pone, riguardo ai movimenti degli indicatori numerici, in assoluta continuità con i Governi del centrosinistra.

Il lodatissimo Governo Gentiloni, che ha fatto i compiti a casa assegnatigli da Bruxelles, ha chiuso l’esercizio finanziario 2017 con un deficit certificato al 2,3 per cento a fronte della stima, contenuta nel Def, del 2,1 per cento. E il debito, seppure in lieve regresso dello 0,8 per cento rispetto all’anno precedente, è cresciuto in valore assoluto di 43 miliardi e 510 milioni. Non che per questo sia venuto giù il diluvio universale sulla nostra economia. Come direbbero a Bolzano: “Ma de che stamo a parlà?”. Anche la qualità della manovra non si presenta granché dissimile dalle precedenti. Dei circa 40 miliardi di euro di spesa aggiuntiva la metà, oggi come ieri, è impegnata per il disinnesco delle clausole di salvaguardia che congelano l’aumento dell’Iva, per le spese indifferibili e per gli accontamenti necessari a fronteggiare eventuali variazioni in aumento del servizio del debito. Restano gli altri 20 che comprendono il Reddito di cittadinanza. Ma non è la prima volta che una manovra sui conti pubblici preveda misure di sostegno pubblico al reddito. Gli 80 euro di Matteo Renzi, divenuti strutturali con Paolo Gentiloni, insieme con i bonus giovani cos’altro sono se non assistenzialismo? Non occorre essere il Ragioniere generale dello Stato per verificare l’esatta parificazione del valore quantitativo delle due misure. Dieci miliardi per i bonus, altrettanti per il Reddito di cittadinanza. Una differenza starebbe nel finanziamento in deficit della “Quota 100” quale soglia d’accesso alla pensione che, di fatto, demolisce l’architettura della Legge Fornero.

Pensiamo davvero che un Paese con i fondamentali macroeconomici dell’Italia e con un Pil, calcolato al 2017, di 1.716 miliardi 238 milioni di euro, possa finire in bancarotta per quegli 8 miliardi che ballano sulla questione della “Fornero”? Altra differenza, ma in positivo rispetto al passato, dovrebbe risiedere, oltre che nel rafforzamento del fondo per i risarcimenti ai risparmiatori danneggiati dai crack bancari, nel maggiore impulso agli investimenti da ottenere liberando risorse attraverso una iniziale, ancorché insufficiente, diminuzione della pressione fiscale. L’allargamento della fascia dei beneficiari dell’aliquota fissa al 15 per cento, peraltro introdotta dal precedente Governo, è un atto di giustizia verso le cosiddette “Partite Iva” che, nelle analisi sociologiche, hanno sostituito le classi degli sfruttati dei secoli precedenti. Le riduzioni condizionali dell’Ires dovrebbero servire a incentivare le imprese a fare di più sul piano della crescita individuale.

Parliamoci chiaro, posto che un problema di riequilibrio nella distribuzione della ricchezza c’è e primo dovere di un governo democraticamente eletto è di salvaguardare la coesione sociale, non è meglio che sia stata scelta un’azione anticiclica sostenendo la domanda interna piuttosto che ricorrere alla leva della fiscalità introducendo la tassazione sui patrimoni? Sarà per questo che il molto versatile Presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, in queste ore è saltato sul carroccio leghista. Segno che la presenza di Matteo Salvini al Governo viene vissuta dalle parti di viale dell’Astronomia come argine all’avventurismo neopauperista di una quota significativa dei Cinque Stelle. Allora perché, di là dal disfattismo becero, l’iniziativa governativa spaventa tanto? Il problema non sta nel contenuto della manovra, ma nel metodo. Quella lotta all’arma bianca con il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha portato al nuovo corso giallo-blu un grande risultato simbolico: la politica che si riappropria del proprio ruolo egemone rispetto all’economia. E poi, l’annunciata ribellione ai diktat dell’establishment europeo. Le parole più importanti, nel giorno del profluvio di dichiarazioni inutili, sono state quelle del ministro Paolo Savona. “Abbiamo lanciato il guanto di sfida alla vecchia Europa, ora dobbiamo vincere la guerra, perché guerra sarà”. Questo è parlare da statisti. Consapevolezza di dover affrontare uno scontro in vista di un obiettivo superiore da conseguire. In quest’ultimo decennio, popolato da servi e da cialtroni, avevamo perso l’orecchio all’ascolto di parole alte. Che, tuttavia, non sono le uniche. In soccorso di Savona giunge la lucida analisi del professor Giulio Sapelli che raccomanda di aggredire le “Tigri di carta” di Bruxelles con una “Riforma luterana” non già della cristianità ma dell’Unione europea. Ancor prima di mettere mano ai Trattati, secondo Sapelli, l’obiettivo di breve termine dovrebbe focalizzarsi sulla revisione integrale dei Regolamenti, perché essi hanno “valore compulsivo in base ai rapporti di potenza”.

Il messaggio contenuto nel nuovo Def, e che gli eurocrati non gradiranno, è che il patto con gli elettori viene prima di “ogni potere automatico tecnocratico europeo”. Quindi, se guerra sarà che ci si prepari con le strategie migliori. A cominciare dalla tessitura di un fronte ampio di alleanze che coinvolga sia gli operatori dei mercati, a cui spiegare gli obiettivi di crescita inseriti nella manovra, sia i governi dei Paesi non ostili al nostro. Vi sarà un gran lavoro nei prossimi giorni per i ministri degli Esteri, dell’Economia, degli Affari europei e… della Difesa. Come disse qualcuno: la rivoluzione non è un pranzo di gala. Siamo consapevoli che per un po’ ci saranno acque agitate per lo spread e per gli andamenti di Borsa. Ma è questione di tenuta del tessuto morale di una società che deve riprovare ad essere una comunità di destino. Niente a questo mondo è regalato. Chiediamoci cosa sarebbe stato dell’Europa e del Mondo se, dopo la disfatta di Dunkerque, Winston Churchill si fosse piegato ai diktat della Germania. E noi? Caliamo le brache al primo stormir di foglia?

Aggiornato il 01 ottobre 2018 alle ore 12:04