Gli stress test nella fattoria degli animali

La scorsa settimana non è stata facile per i nostri conti pubblici, ma si è chiusa bene. La pubblicazione degli esiti degli stress test effettuati dalla Banca centrale europea su un campione di 48 banche di 15 Paesi dell'Ue e del See, tra le quali quattro italiane, che complessivamente coprono il 70 per cento delle attività totali del settore bancario dell'Unione, ha decretato che il nostro sistema creditizio è solido. Infatti, negli scenari di estrema crisi simulati dall'Autorità bancaria europea (acronimo inglese, Eba), l’impatto sul “Cet 1 ratio” (Common equity tier 1) delle nostre maggiori banche inciderebbe, a fine 2020 e a pieno regime d’attuazione delle norme europee sui patrimoni bancari, in una percentuale sul capitale che oscilla tra il 9,66% (Intesa-Sanpaolo) e l’ 8,32% (Ubi Banca). Peggio andrebbe alle principali banche tedesche, francesi e inglesi. Deutsche Bank si è fermata all’8,14% mentre la francese Société Générale ha chiuso la prova al 7,61%.

Tenuto conto che la Banca centrale europea ha fissato, in situazioni di crisi reali, all’8 per cento la soglia sotto la quale scatta il commissariamento dell’istituto vigilato (si veda il caso di Banca Etruria), ben si comprende chi stia messo meglio e chi peggio. Quindi, non sono le banche italiane che dovrebbero fare paura ai mercati. Monitorare il parametro “Cet 1 ratio” non è sterile esercizio di disciplina di mercato giacché con il calcolo del rapporto tra capitale ordinario versato (Tier 1) e le attività di rischio ponderate si misurano le risorse di cui dispone un istituto di credito per garantire i prestiti ai clienti e per sopportare i rischi derivanti da quelli deteriorati. Naturalmente c’è sempre qualcuno a cui non va mai bene niente. C’è chi dubita della buona notizia sostenendo che la bella fotografia del sistema bancario italiano sia in realtà un’immagine ingiallita. Il test è stato effettuato sugli indici contabili relativi al 2017, per cui non avrebbe tenuto conto dell’impatto delle recenti svalutazioni patrimoniali provocate dall’impennata dei rendimenti sul Debito sovrano italiano dei cui titoli sono pieni gli istituti di credito nostrani. Ma si tratta di questione di lana caprina che smentisce se stessa. La verità è che il problema, come andiamo sostenendo da tempo, è di natura meta-finanziaria, più propriamente politica.

Resta il fatto che la promozione c’è stata e ciò dovrebbe pur significare qualcosa per gli investitori. Lo si è visto venerdì in Borsa, quando si sono diffuse le prime anticipazioni sugli esiti degli stress test i “bancari” sono schizzati in alto e lo spread si è abbassato. La querelle con la Commissione europea sullo sforamento dei parametri della stabilità monetaria da parte dei nostri conti pubblici dov’è finita? Dopo il cattivo risultato degli istituti di credito tedeschi e francesi nei prossimi giorni dovremmo assistere a una corsa a svenderne i titoli azionari e obbligazionari. E invece non accadrà nulla del genere. Perché? Lo stesso dicasi per i titoli del Debito sovrano tedesco e francese. Di regola, nessuno è tanto scriteriato da puntare i propri denari sui titoli di Stato di quel Paese le cui banche sono sull’orlo del default. Eppure, la domanda di mercato di bund tedeschi rimarrà alta abbastanza da tenerne il rendimento a tassi prossimi allo zero (apertura odierna a 0,42 per cento). Perché? Parliamo di spread. Sappiamo che si tratta del differenziale di rendimento tra i nostri titoli di Stato decennali e quelli tedeschi. Diamo per scontato che l’oscillazione dello spread dipenda esclusivamente dall’andamento dei rendimenti dei nostri titoli: se i tassi aumentano lo spread sale, se diminuiscono scende. Non si prende in considerazione la possibilità che la variazione possa essere determinata non dall’oscillazione del nostro Btp ma dalla perdita di valore del Bund. Perché? C’è una sola risposta plausibile a queste domande. Il titolo tedesco non è in discussione perché tra gli operatori finanziari è radicato il convincimento che qualsiasi cosa di negativo accada alle banche tedesche, il Governo di Berlino interverrà a mettere le cose a posto, a prescindere dalle regole europee che lo impedirebbero. È diffusa la sensazione che ciò che vale per i Paesi dell’Unione, non valga per la Germania e, in parte, per la Francia. È il trionfo dell’Europa orwelliana nella quale vige la “Grundnorm”: tutti sono eguali, ma alcuni solo più eguali degli altri. Si tratta dell’essenza profonda della volontà di potenza, in questo caso economica, della quale è portatrice la Germania del terzo millennio. Le regole europee sulla stabilità monetaria sono state volute da Berlino per tenere sotto controllo i sistemi economici di tutti gli Stati membri dell’Ue, eccetto ovviamente la stessa Germania.

È dunque la messa in pratica di un’idea egemonica a conferire massima affidabilità ai titoli di Stato tedeschi, non il rispetto o meno di un decimale di punto nel rapporto Deficit/Pil, come invece si pretende dall’Italia. E la reazione furibonda all’alzata di testa di Roma sui conti pubblici non scaturisce da un sussulto ragionieristico degli eurocrati di Bruxelles ma dalla piena consapevolezza di una guerra al potere nell’eurozona scatenata dal Governo italiano con l’astuto stratagemma, che fu del mitico Odisseo, del “cavallo di Troia” del maggior deficit. L’ambizione giallo-blu, forse velleitaria, ispirata dall’Ulisse/Paolo Savona è di scardinare la gabbia ordinamentale sovranazionale destinata a porre i Paesi membri dell’Ue in uno stato di sudditanza strutturale a quel Reich millenario che, per due volte il secolo scorso, è stato respinto a cannonate. In una delle due anche per merito italiano, come ci hanno ricordato le celebrazioni ieri del 4 novembre, a cento anni dalla vittoria nella Prima guerra mondiale. E il cui insegnamento, a proposito di guerre d’indipendenza, non dovrebbe essere dimenticato.

Aggiornato il 05 novembre 2018 alle ore 13:16