Spazio e tempo: le due categorie dimenticate

Senza dubbio la cultura rende tutti noi coscienti della forza e della rilevanza di due categorie che spesso o sottovalutiamo o dimentichiamo del tutto, due categorie quella del tempo e quella dello spazio che, a cavallo dei due secoli il ventesimo ed il ventunesimo, hanno vissuto una speciale peculiarità: una forte crescita della rilevanza della funzione “tempo” ed un contestuale ridimensionamento dello spazio. Faccio sempre un esempio che è ormai banale: l’uso dell’alta velocità ferroviaria ha reso “vicine” distanze tra aree urbane come Roma e Firenze, come Roma e Napoli, come Milano e Bologna e ciò grazie ad una riduzione rilevante del fattore “tempo” grazie all’alta velocità. Ma ancora più rivoluzionaria è l’azione portata avanti negli ultimi quattro – cinque anni dalla Cina; lo spazio non è quello di una rete ferroviaria nazionale, non è, cioè, di appena 200 o 300 chilometri e il tempo non è l’ora ma la settimana o, addirittura, il mese. In realtà stiamo, o meglio la Cina sta reinventando “l’uso del mondo” e lo sta facendo rivedendo integralmente una cultura consolidata caratterizzata dai “blocchi”: gli Stati Uniti, l’Unione Europea, la Russia, il Medio Oriente, l’Africa, l’America Latina, ecc.

E questo cambiamento concettuale si carica di tante possibili interpretazioni: una molto semplice e banale è quella relativa alla volontà espansionistica della Cina; un’altra è quella legata ad una vera reinvenzione dei mercati fatta sempre dalla Cina; un’altra relativa ad un passaggio da una logistica tradizionale fatta di filiere merceologiche e di modalità di trasporto a ciò che oggi chiamiamo supply chain (in italiano la definiamo  filiera logistico produttiva, ogni volta che noi guardiamo a un’azienda, ai suoi fornitori e ai suoi clienti in un’ottica di rapporto cliente fornitore multiplo stiamo parlando di una supply chain). Forse è tutto questo ma la cosa più nuova e più sconvolgente è proprio il cambiamento dell’approccio alle due categorie del tempo e dello spazio. Ed il primo interrogativo che viene spontaneo in coloro che, a scala generazionale, stanno oggi vivendo queste evoluzioni è quello relativo a come raggiungere un teatro economico, quello europeo e quello africano, cercando di ottimizzare al massimo la logica degli scambi e, nel caso del continente africano, innescare condizioni di vivificazione dei processi produttivi, dei processi commerciali, dei processi logistici; mentre nel caso del Mediterraneo come renderlo unico HUB logistico e no sommatoria falsa di HUB portuali.

Sembra strano ma averlo pensato ed aver già effettuato una serie di atti pianificatori e finanziari, avere sottoscritto già una serie di Memorandum of Understanding con diversi Paesi interessati al progetto, è, a tutti gli effetti, un punto di non ritorno, è una linea strategica che senza dubbio sconvolge le rendite di posizione che per anni hanno articolato il mondo in ambiti territoriali consolidati e mai disposti ad incrinare la forza e la rilevanza delle due categorie quella, ripeto, dello spazio e del tempo. Non scoraggiarsi di due dati quali: la distanza via terra tra il teatro economico cinese e quello europeo è di 18 giorni via terra e quello via mare di 40 giorni, rappresenta la prima grande rivoluzione che la Cina ha già compiuto e lo ha fato non disegnando un futuro generico ma costruendo una misurabile proposta progettuale.

Infatti è il più grande ciclo di investimenti infrastrutturali del secolo, quello che la Cina si appresta a mettere in campo nei prossimi 15 – 20 anni: 900 progetti, 1.000 miliardi di investimenti, 780 miliardi di dollari generati dagli interscambi con i Paesi coinvolti, 200.000 nuovi posti di lavoro. L’iniziativa coinvolge 65 Paesi in cui vive il 62% della popolazione mondiale (4,5 miliardi di persone), il cui PIL (prodotto interno lordo) ammonta a 21 trilioni di dollari, pari al 30% del PIL globale. Questo gigantesco piano di sviluppo infrastrutturale fu lanciato dal Presidente cinese Xi Jinping nel 2013 e fu inserito nella Costituzione del Partito comunista cinese durante il XIX° Congresso.

Oltre a prevedere il rafforzamento delle infrastrutture già esistenti e la costruzione di nuovi impianti marittimi e ferroviari, il progetto ha l’obiettivo di ridurre drasticamente la distanza fisica tra Cina ed Europa, non soltanto per favorire e facilitare gli scambi commerciali sino-europei ma anche per migliorare le relazioni politiche e interpersonali grazie allo spostamento di persone con la progettazione di linee ad alta velocità. Il 15 maggio 2017 si è svolto a Pechino un Summit internazionale nel corso del quale il Presidente cinese Xi Jinping ha annunciato di voler sostenere il Fondo della Via della Seta, partito inizialmente con 40 miliardi di dollari, con altri 100 miliardi di yuan, equivalenti a più di 14 miliardi di dollari. I finanziamenti, difatti, saranno elargiti dal Silk Road Fund e da altri istituiti di credito cinesi, tra cui la China Development Bank, l’Export and Import Bank of China, la Banca asiatica per le infrastrutture e gli investimenti (AIIB) (1,7 miliardi). E’ in questo nuovo quadro finanziario – istituzionale che nel 2015 ad Hong Kong è stata costituita la Silk Road Chamber of International Commerce (SRCIC), la quale offrirà opportunità di commercio e investimenti sia al settore pubblico che privato per la realizzazione di progetti legati alla BRI. Ad oggi conta già 81 Paesi membri. L’importanza attribuita dall’Italia alla BRI (Belt and Road Initiative) fu confermata dalla presenza al Forum dell’ex Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, unico leader del G7 presente al Forum di Pechino.

Forse dovremmo soffermarci un attimo sulla dimensione innovativa del programma cinese, cercando anche di ricordarne una caratteristica che lo rende diverso da iniziative “mondo” portate avanti dagli Stati Uniti d’America, mi riferisco al Piano Marshall, ufficialmente chiamato piano per la ripresa europea (“European Recovery Program“). Fu uno dei piani politico-economici statunitensi per la ricostruzione dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale. Questo piano consisteva in uno stanziamento di quasi 14 miliardi di dollari. Inoltre esso indicò agli europei che l’interdipendenza poteva costituire una soluzione alle tensioni ed ai conflitti, che da sempre avevano caratterizzato la loro storia. Sul piano interno, poi, l’aiuto statunitense consentì alle fragili democrazie occidentali di rilassare le politiche di austerità e di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni. Ma, come tutte le altre azioni programmatiche a scala mondiale portate avanti dagli Stati Uniti (vedi Vietnam, vedi Medio Oriente), la pianificazione avveniva a valle di un conflitto e aveva quasi i connotati tipici di una ricostruzione del tessuto economico, di una convinta operazione risarcitoria del danno arrecato con l’azione bellica.

La Cina invece no, per la prima volta si cimenta in una pianificazione che, come detto prima più volte, annulla del tutto due categorie come il tempo e lo spazio e pianifica, in modo capillare, un assetto che ci fa capire ancora di più quanto sia forte il nostro provincialismo, quanto sia perdente la nostra paura nell’abbandonare gli schemi tipici e vecchi della programmazione corta e della visione miope.

Il Professor Giulio Tremonti giorni fa ha dichiarato: “stiamo attenti perchè alla Cina interessano i porti di Genova e di Trieste solo per entrare nel centro Europa” e senza dubbio è vero ma fosse solo questa la finalità del Piano cinese penso dovremmo esserne soddisfatti perché i due porti passerebbero dal nanismo attuale (parliamo sempre di 2–3 milioni di TEU) ad una dimensione davvero inimmaginabile (5–8 milioni di TEU); cioè vedremmo passare gli introiti da IVA dei due porti da circa 2 miliardi di euro ad oltre 14 miliardi di euro e soprattutto cambierebbero completamente i livelli occupazionali e prenderebbe corpo una attività logistica diretta ed indiretta che reinventerebbe le aree della intera fascia settentrionale del Paese.

Tratto dal blog "Stanze di Ercole"

Aggiornato il 22 marzo 2019 alle ore 13:27