Cosa misura lo spread?

Nell’articolo “Il Governo? È in salute e vuole campare a lungo“, pubblicato ieri l’altro, ho sollevato dubbi sull’affidabilità di analisi economiche basate sul mero dato dello spread. Ho cercato di dimostrare che il ricorso a tale indicatore per formulare giudizi sullo stato economico di un Paese talvolta può risultare fuorviante. A sostegno della mia argomentazione ho rappresentato i tassi d’interesse dei Btp e dei Bund segnati nella giornata borsistica dell’altro ieri comparandone il rapporto con i rendimenti conseguiti dai mercati il 2 febbraio 2017, data scelta a campione per il raffronto.

Claudio Romiti, nell’articolo pubblicato ieri dal titolo “Il tempo dei miracoli è quasi scaduto“, pur senza citarmi mi chiama in causa contestando la faziosità della mia tesi. Scrive Romiti: “Se infatti ai tempi del ministero Gentiloni il nostro decennale rendeva molto meno rispetto a quello di Spagna e Portogallo, Paesi spesso inseriti insieme all’Italia e la Grecia nel poco virtuoso club dei cosiddetti pigs, oggigiorno la situazione si è più che ribaltata”. La sua asserzione contiene un’inesattezza, una verità e un’ovvietà. Non è vero che i titoli del debito pubblico spagnolo, alla data presa a campione, rendessero molto più del nostro Btp. Al 1 febbraio 2017 i Bonos spagnoli a 10 anni chiudevano a 1,661 per cento, contro i Btp decennali collocati all’asta il 2 febbraio 2017 al rendimento del 2,28 per cento. È vero, invece, che in pari data il Bond decennale “OT” portoghese era al tasso del 3,882 per cento. Ed è di palmare evidenza che oggi la situazione si presenti ribaltata. Eppure, se i mercati finanziari seguissero una logica razionale la realtà dovrebbe essere inversa. Secondo il grafico delle probabilità di default implicite negli spread contro Bund al 5 luglio 2013, elaborato da Rischiometro.blogspot.com su dati Bloomberg, il mercato assegnava al titolo decennale italiano una probabilità del 47 per cento di non essere rimborsato per la metà del suo valore nominale dopo dieci anni, contro il 51 per cento del pari titolo spagnolo e l’81 per cento di quello portoghese.

Cosa è accaduto in questi ultimi sei anni da sovvertire la logica? Non è stata una questione di debito pubblico. Quello italiano era passato in un solo balzo dal 116,50 per cento del Rapporto debito/Pil del 2011 al 123,40 per cento del 2012, per salire ulteriormente al 129,00 per cento nel 2013. Era stata la cosiddetta “cura Monti”, dal nome del “salvatore” voluto dai poteri europei per rimettere in piedi il malato Italia. Peccato però che la cura si sia rivelata peggiore del male. Il “commissario” Mario Monti, non contento di aver ammazzato il cavallo, con i suoi metodi ha infettato la scuderia. Al contrario, la Spagna nello stesso periodo faceva volare in alto l’asticella del debito pubblico, portandola da 56,511 punti percentuali nel rapporto debito/Pil del 2011 a 71,761 del 2012. E negli anni successivi il debito è cresciuto costantemente fino a toccare il 98,1 per cento nel 2017. La differenza è stata che, nello stesso periodo misurato, la Spagna spingeva sugli investimenti mentre l’Italia frenava. Con l’esito che nel 2017 il Pil pro-capite spagnolo ha superato quello italiano (2017: Spagna 38.285,966 - Italia 38.140,338. Valori misurati a parità di potere d’acquisto- Fonte: Info Data de “Il Sole 24 Ore”, Riccardo Saporiti, 25/04/2018). Gli anni dal 2012 sono stati per l’Italia quelli dei “compiti a casa” assegnati dalla Commissione europea. Se le politiche imposte da Bruxelles, e supinamente accettate dai governi italiani che si sono succeduti, fossero state valide i dati macroeconomici del nostro Paese sarebbero stati soddisfacenti. Invece, sono scarsi. Non c’è crescita. E con gli zero-virgola che speranza si ha di abbattere il debito pubblico?

È dalla fine del secolo scorso che l’economia italiana avanza a passo di lumaca, quando non arretra. Prendersela con il Governo giallo-blu, in carica da un anno, solo perché ha provato a cambiare ricetta, non è serio. E sottrae credibilità ai tentativi di analizzare scientificamente le cause del mancato sviluppo. Le misure previste con la Legge di Bilancio 2019 sono destinate a dispiegare i primi effetti contabilmente apprezzabili nella seconda metà dell’anno. Ne hanno preso atto anche i mercati che, non a caso, sono in posizione d’attesa sui titoli di Stato italiani. Resta, però, un interrogativo che non può essere eluso: perché nonostante le crisi politiche, la recessione, il calo della produzione industriale, registrati anche in altri Paesi dell’area euro, tocchi solo ai titoli di Stato italiani scontare la diffidenza degli investitori? L’Italia ha fondamentali della propria economia che gli altri Paesi se li sognano; da anni chiude i propri bilanci con saldi primari attivi. Il risparmio privato è ampiamente superiore allo stock del debito pubblico. Eppure, c’è chi paventa un rischio-Italia per la stabilità dell’Eurozona. L’unica spiegazione è che l’andamento dei mercati finanziari dipenda principalmente dalla percezione, politica, del differente peso specifico che si riscontra tra chi comanda in un determinato contesto e chi no e, in subordine, tra chi sta dalla parte dei padroni del vapore e chi no.

Ora, la politica italiana, che ha visto l’affermazione delle forze populiste e antisistema, ha spaventato gli investitori. Diversamente, i mercati giudicano la Germania il dominus incontrastato dell’Unione europea. Ciò comporta che lo Sato forte imponga agli Stati deboli ferree regole comunitarie, non sentendosi tenuto a rispettarle. Tale supremazia di fatto fa sì che qualsiasi cosa accada nei Länder tedeschi o negli Stati satelliti di Berlino, ciò non incide sul merito di credito dei rispettivi debiti sovrani. Come altro spiegare il fatto che i Bund stazionino saldamente in territorio negativo nonostante la produzione automobilistica tedesca sia in caduta, vi siano seri rischi per le esportazioni a seguito della Brexit e della guerra dei dazi cfra Cina e Usa, le due principali banche del Paese rischino il default, Donald Trump bastoni quotidianamente la signora Angela Merkel? La debolezza dell’Italia non è causata dall’alto debito pubblico ma dal crollo di peso specifico del sistema-Paese sul terreno geopolitico. Lo spread lievita per il fallimento del Governo nel gestire la crisi interna libica piuttosto che per il decimale di punto del saldo strutturale che si stanno contendendo il ministro Giovanni Tria e i guardiani europei dei conti. La fragilità italiana abita al Quirinale, a Palazzo Chigi e alla Farnesina, prima ancora che al ministero dell’Economia.

Di là da tutte le fregnacce buoniste che abbiamo dovuto subire nel passato, la verità è che l’unica cosa che conti nei rapporti internazionali è la forza. E se proprio volessimo dare un senso allo spread, dovremmo prenderlo come indicatore della volontà di potenza degli Stati: più sei debole, più paghi; più sei forte e sono gli altri a pagare te. Si vuole riportare il rendimento dei titoli di Stato a tassi d’interesse accettabili? Allora si riprenda l’iniziativa politica mostrando al mondo che, dopo il disastro del 2011, l’Italia non è tornata ad essere un’espressione geografica, come si vorrebbe in talune cancellerie europee.

Aggiornato il 13 giugno 2019 alle ore 10:01