Virus: un’opportunità per ridurre le tasse

La crisi economica e sociale in cui è piombato il paese a causa del Covid-19 richiede interventi drastici ed immediati, perché, in situazioni di emergenza, il tempo è un lusso che la classe dirigente non si può permettere e, da questo punto di vista, lo “zero in strategia economica” recentemente assegnato al governo dal presidente di Confindustria Carlo Bonomi non è un buon segnale. Sempre Bonomi, lo scorso 29 maggio, sul quotidiano La Stampa, ha segnalato che, a suo avviso, “manca una visione d’insieme” e che, inoltre, c’è “il serio rischio che si possano perdere fino ad un milione di posti di lavoro”, per cui ha invitato la politica a fare “importanti riforme altrimenti l’Italia potrebbe non farcela”. Sempre il 29 maggio, gli ha fatto quasi da eco il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco che, nel prevedere un disastroso – 12 di Pil annuale, ha evidenziato l’esigenza di un “nuovo contratto sociale” e di un’immediata riduzione del carico fiscale delle imposte dirette sul reddito per un rilancio del sistema economico. Il 31 maggio, ancora Bonomi, questa volta sul quotidiano la Repubblica, è stato ancor più esplicito, avendo sostenuto addirittura che: “Questa politica rischia di fare più danni del Covid”.

Quindi, anche se ne avremmo fatto volentieri a meno, bisogna, in qualche modo, “approfittarsi” di questo maledetto virus per ripartire con delle riforme epocali, in tutti i settori, a partire da quello fiscale. Tale riforma va attuata nel rispetto del principio di progressività sancito ex articolo 53 della Costituzione, perché risponde a criteri di equità che chi guadagna di più contribuisca maggiormente a far funzionare lo stato, anche se l’introduzione della Flat tax, cioè, di una tassa uguale a prescindere dal reddito, ha, comunque, il vantaggio di rendere il sistema fiscale più efficiente nel lungo periodo, tuttavia, richiede un lungo procedimento legislativo di revisione costituzionale non percorribile di questi tempi. Come è noto, l’attuale sistema fiscale prevede quattro imposte dirette, l’Irpef, l’Ires, l’Irap, l’Imu e cinque scaglioni di reddito che vanno da un imponibile minimo del 23 per cento ad un massimo del 43 per cento, inclusa un’area cosiddetta “No tax” per i redditi inferiori ad una certa soglia. È più o meno come scoprire l’acqua calda riconoscere che l’attuale sistema fiscale ha fallito completamente il suo compito se l’82 per cento delle tasse proviene da lavoro dipendente e da reddito pensionistico, se il 45 per cento dei contribuenti dichiara un reddito non superiore ai 15mila euro, se solo il 6 per cento dichiara un reddito superiore ai 50mila euro e se solo lo 0,1 un reddito superiore ai 300mila euro. Non è questa la fotografia della situazione reale del paese, così come è altrettanto anomalo che i lavoratori autonomi contribuiscano solo per il rimanente 18 per cento. Non è proprio la scoperta del secolo perché il sistema fiscale vigente è sotto osservazione da parte della politica, il più delle volte solo a chiacchiere, da almeno 30 anni, per cui è arrivato finalmente il momento procedere ad un suo rapido riordino attraverso una significativa riduzione delle aliquote, anche perché il paese si sta impoverendo a causa del Covid e questa potrebbe essere l’occasione giusta anche per far “emergere”, senza rancori e sanzioni, quella parte di contribuenti un po’ “distratta”.

Prescindendo da un’analisi di contabilità pubblica, tuttavia, a titolo puramente orientativo, gli scaglioni dovrebbero passare da 5 a 3 e, mantenendo immutata l’attuale area “No tax”, l’abbassamento dovrebbe ridurre il primo scaglione al versamento del 15 per cento per i redditi fino a 50mila euro, il secondo scaglione al 22 per cento per redditi fino a 100mila euro ed il terzo con un imponibile del 30 per cento per i redditi superiori. Per un riequilibrio interno, è opportuno anche che il contribuente, sia esso persona fisica soggetto ad Irpef oppure persona giuridica soggetta ad Irap ed Ires, venga “unificato” in modo che il versamento complessivo non superi l’aliquota di riferimento, comprensiva, quindi, anche delle imposte dirette comunali e regionali. Anche se la delicatezza della materia richiederebbe un disegno di legge, tuttavia, la riforma può essere introdotta in tempi brevi con un decreto legge ampiamente giustificato dalle condizioni di necessità in cui versa il paese; le Camere potranno esaminarlo accuratamente ed approvarlo nei tempi previsti dalla costituzione, apponendo i necessari correttivi. La riforma fiscale deve essere accompagnata da un robusto impianto normativo “collegato” che ne assicuri l’effettiva applicazione ed andrebbe anche contemplato un eventuale breve differimento della sua entrata in vigore, per consentire le opportune correzioni al bilancio pubblico e per fronteggiare le conseguenti oscillazioni di cassa determinate dalla riduzione delle entrate. Infatti, un abbassamento delle tasse, anche “spalmato” in un paio di esercizi, avrebbe, comunque, l’effetto positivo di iniettare fiducia nei cittadini, finalmente, consapevoli che il fisco sta assumendo un volto umano, arresterebbe anche le fughe all’estero dei capitali e renderebbe un po’ meno gravoso qualche ulteriore sacrificio in vista di tempi migliori.

Inoltre, anche se è notorio che la media fiscale europea non contempla l’Italia al primo posto perché ci sono paesi, pochi in realtà, a tassazione più elevata, tuttavia, è altrettanto notorio che, contrariamente ad altre nazioni, in Italia, ad una pressione fiscale molto alta, non corrisponda una soddisfacente risposta statale nella funzionalità dei servizi resi al cittadino. In effetti, il contribuente non vive bene l’elevato prelievo fiscale anche perché i servizi pubblici non funzionano a dovere, per cui non si contribuisce con piacere a far funzionare qualcosa che non va. Quindi, perché abbia un senso, la diminuzione della pressione fiscale deve essere accompagnata da un corredo normativo che, da un lato, comporti un taglio della burocrazia e, dall’altro, incida concretamente sulla percezione immediata del miglioramento della qualità dei servizi forniti dallo Stato. Se le entrate tributarie, come detto, sono rette essenzialmente da lavoro dipendente, la riforma deve tendere principalmente al “recupero” degli evasori fiscali, presenti in Italia, come in ogni altro paese, ma è ben possibile che l’eccessiva tassazione abbia indotto qualcuno a “distrarsi” e, quindi, un importante abbassamento del prelievo potrebbe costituire da incentivo, se, contestualmente, lo Stato renderà i servizi pubblici maggiormente funzionali ai bisogni della collettività.

Per chiudere il cerchio, una riforma del settore non può non essere accompagnata da una riforma dei reati fiscali che inasprisca le pene in modo da far passare la voglia di evadere le tasse anche introducendo un duro regime sanzionatorio, come accade negli Stati Uniti, in cui, come è noto, l’evasione fiscale è un crimine punito con pene molto elevate. È evidente, altresì, che gli aspetti penali della riforma non possono essere applicati retroattivamente, in omaggio al principio di irretroattività della legge penale di cui al combinato disposto ex articolo 25 della Costituzione ed ex articolo 1 del Codice di procedura, per cui, da questo punto di vista, i “distratti” non correrebbero rischi di natura penale una volta “riemersi” e regolarizzati. Quindi, una significativa riforma della fiscalità deve essere contestualizzata in una revisione globale del sistema economico, nello stile del “New Deal” Usa del 1929, che abbassi nettamente la pressione fiscale, semplifichi velocemente la macchina, migliori la qualità dei servizi e preveda pene elevate in caso di evasione fiscale, seguendo, da questo punto di vista, il modello americano, certamente migliore dell’esempio fornito delle dittature comuniste a cui è stato fatto ricorso ultimamente. Infatti, come è noto, il governo ha fatto ampio ricorso al decreto legge per attribuirsi i “super poteri” con cui ha messo a casa i cittadini e ha disposto, per il contenimento, uno spiegamento di forze dell’ordine che ha ricordato i tempi del terrorismo.

Dal momento che al governo non c’è Franklin Delano Roosevelt, come negli Stati Uniti del 1929, ma Giuseppe Conte, vedremo se saprà utilizzare la decretazione d’urgenza anche per abbassare le tasse e procedere alle riforme epocali di cui il paese ha bisogno e sollecitate, all’unisono, sia dal presidente di Confindustria che dal governatore della Banca d’Italia. Tuttavia, va anche ricordato che non sempre “copiare” dagli americani dà garanzie di successo perché, ad esempio, la riforma del codice di procedura penale nel 1989 che ha introdotto nel nostro ordinamento giudiziario il cosiddetto “processo all’americana”, è stata proprio la causa che ha distrutto il processo penale. Infatti, è opinione di larga parte degli addetti ai lavori che la riforma del Codice di procedura penale fortemente voluta dal ministro della Giustizia Giuliano Vassalli ed elaborata dalla Commissione presieduta da Giandomenico Pisapia, ha prodotto un danno enorme perché ha tolto ai cittadini garanzie processuali anziché fornirne di ulteriori come era, presumibilmente, nelle originarie intenzioni.

Infatti, dopo il processo-farsa ad Enzo Tortora, la politica, nel lodevole tentativo di impedire nuove tragiche ingiustizie come quella avvenuta innanzi al Tribunale di Napoli e che ha coinvolto il noto presentatore, ha introdotto il processo penale accusatorio per ripristinare la parità in giudizio tra accusa e difesa, sostituendolo al processo inquisitorio su cui era impostato il codice di procedura del 1930, il cosiddetto Codice Rocco. Il risultato è stato un completo fallimento anche perché è stato introdotto un processo non in linea con i nostri trascorsi giudiziari, storici e culturali e che ha finito, medio tempore, con il rendere la Giustizia penale un meccanismo molto incerto. Da notare anche che i codici civile e penale attualmente in vigore sono stati introdotti, rispettivamente, nel 1930 e nel 1942 dal Guardasigilli Alfredo Rocco unitamente al vecchio codice di procedura penale del 1930, poi modificato dalla Commissione Pisapia nel 1989, e, paradossalmente, i codici civile e penale non modificati, se non in minima parte, continuano a funzionare discretamente, anche se un po’ vetusti, mentre l’unico codice riformato radicalmente è stato proprio quello di procedura penale che ha condotto la Giustizia penale al naufragio: “Historia Magistra Vitae”.

Aggiornato il 01 giugno 2020 alle ore 13:03